Buoni propositi

Cinque giorni, sei ore e 37 minuti.
Sono ben cinque giorni, sei ore e 37 minuti che Eloisa non butta giù un goccio d’alcol.
Mentre se ne sta distesa sul letto, i secondi continuano a scorrere e tra qualche secondo saranno cinque giorni, sei ore e 38 minuti. Poi passeranno altri secondi, i minuti aumenteranno e lo stesso accadrà alle ore e ai giorni. Sempre che Eloisa tenga fede al suo proposito.

Sonia smetterà di darla sempre vinta a sua figlia. È questo che si è ripromessa di fare, che mica vuole una figlia viziata, lei. Allora martedì sera,all’aperitivo, se n’è venuta fuori con questa storia:
– Ragazze da domani la voglio smettere. Sì, la voglio smettere di darla sempre vinta a quella peste di mia figlia – e mentre lo diceva agitava in aria il bicchiere, lasciando cadere qua e là gocce di spritz.
– Che storia è questa? – le ha chiesto Marina.
– Ma quale storia e storia? – l’ha interrotta Sonia – Questo è un proposito serio, ne va del futuro di mia figlia e io, beh, voglio tener fede a questo proposito –
– Se è per questo anch’io ne ho uno – ha detto allora Marina.
– Di cosa? –
– Di proposito. Bisogna sempre averne uno, no? E il mio è di non interrompere più Paolo quando parla e di non dirgli di stare zitto quando se ne viene fuori con le sue stronzate sul calcio –
– Ma questi non sono due?- ha chiesto Eloisa.
– In effetti… Che dite,dovrei sceglierne uno? –
Dopo il secondo mojito la scelta di Marina era ricaduta sul secondo, il più difficile tra i due, perché lei il calcio non lo sopporta proprio. Lo considera,anzi, una sciagura, che peggio in vita sua non le poteva capitare. Se mai il suo matrimonio dovesse finire, Marina non ha alcun dubbio,sarà colpa di un fallo in aria non concesso e dell’ennesimo“Arbitro cornuto!”.Riuscire a stare zitta davanti agli sproloqui di Paolo sarà un’impresa, ma lei ci vuole comunque provare. Per amore si fa questo ed altro.
Eloisa invece l’amore l’ha dimenticato da un bel po’. Forse è per questo che prima di martedì non aveva alcun proposito. La storia con Sandro è finita da quasi un anno, e nel peggiore dei modi. Lui con un’altra, lei a pezzi. Una catastrofe. Per rimetterli insieme, quei pezzi, le ci erano voluti dei mesi. A suo modo era stato un proposito anche quello, rimettersi insieme. Uno di quei propositi che neanche te ne accorgi, barcolli, fai un passo avanti e due indietro, ma alla fine li porti a termine e ti ritrovi intera.

– E te Isa? – le ha chiesto Marina – Te che proposito hai? –
Eloisa era rimasta in silenzio. Un tempo le era saltato in mente di andare all’anagrafe e cambiare nome, ché a lei quel nome lì, Eloisa, pareva un po’ altisonante. Nessuno l’aveva mai chiamata così a parte sua mamma e forse se aveva sempre la testa tra le nuvole era anche a causa di quel nome. Isa le sembrava decisamente migliore. Essenziale, fresco, proprio come il gin tonic che stava buttando giù quando la domanda di Marina le aveva riportato alla mente quel periodo. Un sorso e un altro ancora, per poi ricordarsi che a fermarla, allora, era stato il dispiacere, quello che avrebbe arrecato a sua mamma quando le avrebbe detto che si era sbarazzata del nome che lei amava tanto. E così, addio proposito.
Da allora non se ne era posti altri e, anche martedì,aveva fatto scena muta.
– Quindi? – aveva chiesto Sonia.
– Quindi niente –
Era finita lì, avevano cambiato discorso. Ma Eloisa quel pensiero se l’era portato a casa e per l’intera notte non s’era data pace. Com’era possibile che lei, a trentaquattro anni, non avesse un proposito a cui mantener fede?Cristo santo! Come diavolo era possibile?

L’indomani si era alzata con gli occhi gonfi di sonno. Anche la pancia non scherzava, gonfia pure quella, sebbene ultimamente non mangiasse un granché. Beveva,quello sì. Del resto il lavoro la stava consumando e a fine giornata non c’era niente di meglio che dei buoni amici e un buon gin tonic. Solo che poi i gin tonic diventavano due, tre… E ora, quei gin tonic erano tutti lì, sulla sua pancia. Vi poggiò sopra le mani, davanti allo specchio, proprio come fanno le donne quando aspettano un bambino, che si guardano e ridono. Prima un lato, poi l’altro, poi ridono di nuovo. Mentre Eloisa, nella sua pancia, non ci trovava proprio niente da ridere.
Così, mentre si guardava allo specchio, le passò in mente che anche lei aveva il sacrosanto diritto d’avere un proposito. Niente a che vedere con un marito o dei figli. Al diavolo il marito e i figli! Eloisa voleva un proposito tutto suo, di quelli buoni, buoni sul serio, a cui tener fede solo per se stessa, che se c’era qualcuno per cui valeva davvero la pena darsi da fare, quella era senz’altro lei. Allora s’era detta: “Niente più alcol, bella mia”. Si era guardata allo specchio, prima un lato, poi l’altro, e aveva accennato un sorriso. “Niente più alcol”. E così era stato, negli ultimi cinque giorni, sei ore e 37 minuti.

Sono le dieci di sera quando il portone di casa sbatte. Eloisa se ne sta sul letto,sonnecchia. Un’altra giornata d’inferno a lavoro. Dopo la doccia s’è buttata sulle coperte ed è rimasta lì fino a quando il portone non ha sbattuto, costringendola ad aprire gli occhi. Alla TV c’è Russell Crowe, che più passano gli anni più si fa bello. Eloisa lo guarda in silenzio. Ha sete, ma mica d’acqua. Le ci vorrebbe un gin tonic. Solo che lei ha un proposito e ce l’ha da cinque giorni, sei ore e ormai 43 minuti. Non può venir meno al suo impegno, non adesso, non lo farebbe neppure se Russell Crowe le piombasse in camera in carne ed ossa con un bel gin tonic. O forse sì?
Smette di pensarci quando il telefono prende a squillare. È Nino. Lei non risponde. Sa già cosa vuole dirle: usciamo? Infatti un attimo dopo glielo scrive in un messaggio.<Usciamo?C’è anche Marina>.
Eloisa si alza dal letto, srotola l’asciugamano intorno alla testa e lascia che i capelli le cadano sulle spalle. Sono ancora umidi, freschi, come un sorso di gin tonic, quando prima di farselo scendere in gola se lo tiene un po’sulle labbra. No, non è il caso di uscire. Non stasera. Prende il telefono e avverte Nino.<Magari domani, oggi faccio passo>.

Intanto nel corridoio si sentono dei rumori. Porte che si aprono, scatoloni che cambiano di posto. Dev’essere una di quelle sere in cui Marisa, la padrona di casa, non riesce a dormire e si mette a fare ordine. Quella donna non è mica tutta rifinita, ma a Eloisa poco importa: per quanto paga d’affitto avere a che fare con i suoi sbalzi d’umore è un buon compromesso. Si chiude a chiave nei suoi venti metri quadri assieme a un libro e a Russell Crowe, e si rimette a letto. Butta giù qualche riga, mentre Russell, muto, continua a muoversi sullo schermo. Qualche riga ancora e poi di nuovo lui. Quel libro è davvero una noia infernale, tanto che buttar giù righe diventa sempre più difficile. Poi a un tratto suona il campanello. Eloisa sobbalza, mentre sente Marisa affrettarsi per aprire il portone: – È lui, Mauro, è senz’altro lui. È arrivato –
I passi svogliati dell’anziano marito seguono la donna nel corridoio.
– Piano – dice lui –o finirai per svegliare tutti! –
Ma lei niente, apre il portone e si lancia in un grido: – Oh Gin, che bello averti qua! Benarrivato Gin. Com’è andato il viaggio, eh Gin, com’è andato?-

Gin? Cosa diavolo…? Eloisa è incredula. Forse avrebbe fatto meglio a dare ascolto a Nino e a diminuire l’alcol un po’alla volta. – Un bicchiere ogni tanto che male vuoi che faccia? – aveva detto lui. Ma lei s’era intestardita e aveva detto basta tutto d’un botto. Il gin le sarebbe mancato, questo lo sapeva, ma non immaginava certo che un proposito potesse arrivare addirittura a darle le allucinazioni. D’un tratto le voci nel corridoio svaniscono, Eloisa si alza per aprire la finestra. Aria fresca, ecco di cosa ha bisogno, ché la mente quando ci si mette può giocare davvero dei brutti scherzi. Mentre ride di se stessa si lascia accarezzare dall’aria fresca della sera. Tutt’intorno è un gran silenzio, la città riesce anche a fermarsi di tanto in tanto. Non crede alle sue orecchie. Non ci crede neppure quando dalla stanza accanto, la voce della signora Marisa torna a farsi sentire. – Gin caro – dice la donna – sarai stanco,arrivare fin qua dal Giappone. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza –
Forse l’aria non è abbastanza fresca. Eloisa scuote la testa per riaversi. Ma poi strizza gli occhi miopi nel buio e vede un ragazzo di spalle davanti ai due anziani. “Gin? Allora esiste davvero!” pensa. Non sa se essere felice o meno,certo però non vede l’ora di raccontare a Nino che dopo cinque giorni, sei ore e 53 minuti senza buttar giù un goccio d’alcol, si ritrova un Gin come vicino di stanza. Davvero un bello scherzo.
Sente dei passi nel corridoio. Corre alla porta, ci sbatte contro e si attacca allo spioncino. Un ragazzo le passa di fronte. Eccolo Gin. Ed ecco Marisa,tutta sorridente, che scivola sulle sue pattine fino a fermarsi proprio davanti alla sua stanza.
– È questa – dice la donna, mentre apre la porta di fronte – mettiti pure comodo, Gin, ci vediamo domani –
Il ragazzo fa un leggero inchino.
– Grazie. A domani – dice lui, in un italiano perfetto che stona con i suoi lineamenti orientali.
– Ah, questo – aggiunge lei prima di dileguarsi – ho pensato potesse farti piacere, visto che… beh… – e porge qualcosa al giovane.
Marisa chiude la porta e nel corridoio torna il silenzio. Gin resta sulla soglia, fermo, con in mano un pacco di riso che osserva interdetto. Marisa stavolta ha davvero superato se stessa. Un pacco di riso! Eloisa non crede ai suoi occhi. Vorrebbe tanto essere con Nino e Marina per riderne insieme. Invece è lì da sola, ma ride comunque, oltre la porta. Ride così forte che Gin alza la testa e in un passo si avvicina allo spioncino. Merda. Eloisa indietreggia. Si porta una mano alla bocca, soffoca il riso. Ma lui resta lì, si aggiusta il colletto della camicia, senza muoversi d’un passo. Allora lei avanza di nuovo, furtiva, e torna ad osservarlo.

Ha i capelli annodati in un codino sopra la testa e dei bei baffi. Occhi scuri che emergono da due fessure sopra gli zigomi e che son lì a guardarla senza vederla.Eloisa ci si perde. Si perde in quel volto sconosciuto, fresco,esattamente come un sorso di gin tonic che scorre in gola. Non ha mai provato un gin giapponese. Adire il vero non ne ha mai nemmeno sentito parlare. Chissà se lo fanno, il gin, in Giappone? Se lo chiede mentre Gin continua a fissarla immobile. Lei fa lo stesso. E più lo osserva, più sente aumentare la sua sete. Se avesse con sé un gin tonic lo butterebbe giù tutto d’un sorso, ma da cinque giorni, sei ore e 57 minuti ha un proposito a cui deve tener fede. Da stasera però ha anche un nuovo vicino e ora che se lo ritrova davanti, beh, non è niente male, tanto che butterebbe giù un sorso anche di lui.
Gin sorride, sembra quasi le abbia letto nel pensiero. Magari anche lui ha voglia di farsi un goccio. Potrebbero farselo insieme. Ma si allontana e raggiunge la sua stanza. Prima di chiudere, però, guarda un’ultima volta verso di lei, oltre lo spioncino, e alza la mano in segno di saluto, per poi svanire dietro la porta.

Eloisa resta immobile, a bocca asciutta. Adesso ha davvero una sete pazzesca. Sono cinque giorni, sette ore e 2 minuti che non butta giù un goccio d’alcol. Le resta comunque l’acqua, certo, ma vuoi mettere con un buon gin tonic a fine giornata. Indietreggia fino a ributtarsi sul letto. Russell Crowe è ancora in TV, muto come prima, ma tanto a uno così mica servono parole. Lo guarda, mentre intanto s’infila gli shorts, poi la canottiera. Lo guarda, sì,ma non lo vede. La sua mente infatti è oltre la porta, da quel Gin giapponese che se ne sta nella stanza di fronte alla sua.
Chissà se è più un Martin Miller o un Plymouth? I suoi occhi scuri danno l’idea di un sapore deciso, speziato. Eloisa prende il cellulare. Nessuna notizia di Nino. Neppure Marina si è fatta sentire. Saranno al pub a raccontarsi le solite storie, a buttar giù sorsi. Maledetti loro, che la sua gola è sempre più secca ed ha così voglia di un gin tonic che teme d’essere sul punto di buttare tutto all’aria. Invece no, stavolta è davvero decisa a tener duro, così d’un tratto si alza dal letto e spegne la TV. Nella dispensa tra le confezioni di pasta si nasconde un pacco di riso; lo prende e si fionda sulla porta. Quella che sta per fare è una cazzata, una cazzata enorme, Eloisa lo sa bene, ma sono cinque giorni, sette ore e 8 minuti che ha una tale sete che…“Al diavolo!”e si fionda nel corridoio.

La stanza di Gin è esattamente di fronte a lei. Eloisa fa un profondo respiro, si da un’aggiustata ai capelli e poi bussa, senza pensarci oltre. La portasi apre lentamente e dalla penombra affiora il volto del ragazzo.
– Ciao – dice lei. Lui resta immobile, la guarda in silenzio. Eloisa rimpiange di non essere andata con gli altri. Ora sì che le ci vorrebbe un gin tonic, con del vero gin e anche bello forte.
– Quello? – chiede lui indicando il pacco di riso.
– Ecco– dice lei – ho pensato potesse farti piacere –
Lo dice facendo il verso alla signora Marisa, ma lui resta serio. Osserva quel riso in silenzio, poi a un tratto torna a guardarla negli occhi. Stavolta però sorride e lo fa in un modo che a Eloisa torna in mente il gin tonic bevuto a Torino qualche mese prima. Di quella sera ricorda tutto, la piazza, il tavolino a cui sedeva, ricorda l’esatto sapore del gin e, mentre ricorda, i secondi continuano a passare, tanto che ormai sono cinque giorni, sette ore e 9 minuti che non butta giù un goccio d’alcol.

Difronte a lei c’è Gin, che non è mica un gin come gli altri, di quelli da bar a cui è abituata. Questo Gin è diverso. Eloisa lo pensa sul serio. Potrebbe infatti avere a che fare con lui senza per questo dire addio al suo proposito. Mica male, che stavolta è intenzionata ad andare fino in fondo.

Così sorride e allunga una mano: – Piacere, Isa –
– Gin –

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Lettera a un cervello in fuga

Bologna, 27/07/2017

Caro mio, la vita non è altro che un susseguirsi di onde.
Basta osservare il flusso degli eventi per capirlo, per capire che quella in cui viviamo è una stagione di mare grosso, in cui i più navigano ormai a suon di biglietto di sola andata.

Negli ultimi mesi ho salutato molti marinai, pronti a salpare in cerca di un porto migliore di questo. Amici, colleghi, così detti ‘cervelli in fuga’. Sono meno in moto di loro, certo, ma spero davvero di non adagiarmi sulle parole e di non dimenticare mai le storie, i volti, le mani e le braccia che stanno dietro a quei cervelli. Decine, centinaia di braccia che ogni giorno sfidano il mare nel tentativo di intercettare la buona onda.

I marinai li riconosci da lontano: biglietto di sola andata in tasca e occhi che luccicano. Sono affascinanti, entusiasti e timorosi al tempo stesso, regalano sorrisi a denti stretti e abbracci che non finirebbero mai.

Oggi tocca a te, marinaio amico e fratello.
Sei pronto?
È una domanda stupida, lo so. Che ci vuoi fare? Le sorelle a volte sono così, stupide al punto giusto da perdere le parole. M’impegno a frugare tra i pensieri ma non trovo di meglio, così li metto a tacere e ti guardo allontanarti. Passo sicuro e spalle grosse, pronte a sostenere i tuoi sogni.
Un istante dopo svanisci oltre il gate.

Non sei ancora partito e già mi chiedo quando ci rivedremo. Che stupida! Mi rattristo all’idea che passeranno mesi, eppure non verso una lacrima. La tristezza mi prende allo stomaco, mi svuota. È come avere fame all’improvviso, ma è chiaro che mangiare non servirà a molto, certamente non a rimpiazzare quel pezzo di me che stai portando oltreoceano.

Eppure dovrei essere abituata. Ho consegnato pezzi di me in mani amiche e anch’io che resto qui a sorvegliare il porto ne ho piene le mani, di preziosi pezzi altrui. Li custodisco gelosamente e mi moltiplico con loro.

Ripenso a quando era bambina, una bambina felice e intera. Ti farà sorridere che mi definisca così, ma dopo il tuo arrivo intera non lo sono più stata. Con te ho appreso molte cose, in primis la suprema arte della divisione. Sei entrato nella mia esistenza a gamba tesa, prendendoti tutto: camera, giocattoli, attenzioni e anche una consistente parte del mio cuore. Avrò avuto si e no cinque anni quando l’ho capito. Mancava poco all’ora di cena e non so come, a un tratto ti ritrovasti con la testa incastrata tra lo schienale e il piano impagliato di una sedia. Ricordo il mio pianto disperato nel sentire la nonna dire: “Non si può mica rovinare la sedia, gli si taglierà la testa”.
Crescendo abbiamo avuto litigi, attraversato l’immancabile fase dell’indifferenza adolescenziale, ma oggi ringrazio il cielo che quella testa sia rimasta al suo posto.

Un aereo prende il volo, alzo lo sguardo.
E così te ne sei andato anche tu.
Lo dico ma non ci credo. Allora me lo ripeto, che se c’è qualcuno a cui devo credere quella sono io. Ma continuo a non prendermi sul serio. Sarà che sono passati solo pochi minuti, che ho lo stomaco pieno di buchi ma non mi sento sola. Fuori splende il sole e non riesco neanche ad essere triste, non quanto vorrei.
Allora sai che ti dico fratellino?
Avanti, tuffati!
La tua buona onda ti sta aspettando.

IRENE ROMANO

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/

Lettera a un cervello in fuga

15 ottobre 2017

E insomma, è andata così.

Mi sono svegliata alle 6.40, che era ancora buio. Doccia, vestiti, borsa e fuori, più spedita che con un calcio in culo.

È andata che mi son detta prendi un Ataf per una volta, che ti fai sempre i chilometri a piedi, che questo rifiuto della comodità inizia a renderti noiosa. Così è andata che ho preso l’Ataf.

E il biglietto? Alle 7.15 la città ancora dorme. Per lo meno la domenica, per lo meno la parte di città in cui vivo. Per fortuna, però, esistono gli sms, così è andata che ne ho inviato uno al 4880105 per il biglietto elettronico.
Ma ecco, è andata che non è andata, perché certi servizi funzionano solo per gli utenti dei gestori seri, mica come me che ho Postemobile. Ma è andata che io mica lo sapevo, l’ho scoperto che ero già sull’autobus, senza biglietto e con un’ansia che metà bastava.

E andava. Si, l’autobus andava, ma non abbastanza da impedire a quel tipo di salire e dire Biglietti prego.
Allora ecco com’è andata.

È andata che gli ho spiegato tutto: i bar chiusi, l’sms… ma lui non si è mosso di un millimetro. Un documento per favore. Va bene la patente? No, preferisce la carta d’identità scaduta. Contento lui.

Poco distante 2 rom iniziano a litigare con il suo collega. Le dispiace scendere che il collega è in difficoltà? Così scendiamo tutti, io, loro e i rom. Che allegra combriccola.

Ci mettiamo solo pochi minuti, dice.

A dire il vero avrei un treno da prendere. Ah, ferma un Ataf alle mie spalle e ci fiondiamo dentro. Addio collega, addio rom. È andata.

Buona giornata, mi dice alla stazione e mi consegna il verbale. 55€. Limortac… Buongiorno a lei.
È andata che la prossima volta me ne vado a piedi.

Salgo in treno, un attimo di quiete. Ma giusto un attimo, eh, che due infermiere attaccano a parlare: turni, riunioni, ma come è antipatico tizio? E caio?

Io leggo, ascolto la musica, mi rigiro, le maledico. Milano non è mai stata così lontana. Ma è andata che alla fine la raggiungo, assieme a 4 buoni amici, ché gli amici o son buoni o che ce li hai a fare?

Sono a Milano. Com’è che andata?
È andata che qualche mese fa un amico mi ha parlato di un festival, il Festival delle Lettere. Tema dell’anno: Lettera a un cervello in fuga.

Perché no?
Così ho scritto. Ho scritto al cervello più in fuga che conosco.
Mio fratello ha la testa sempre in fermento e due spalle grosse, ma così grosse che quando fugge lui smuove altro che aria.

Era l’ora che gli scrivessi, a mio fratello.Così è andata che qualche settimana fa mi è arrivata una mail: sei tra i finalisti. Pare avessero concorso in centinaia. Bella storia!

Oggi eravamo lì, io e tanta bella gente. Un’attrice ha letto le mie parole, una ragazza le ha illustrate con forme e colori. È andata che da centinaia siamo rimasti in dieci, poi tre, e il cuore batteva, cazzo se batteva, e le mani tremavano un po’, e poi… e poi niente, è andata così…

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/