Chefchaouen, 23 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

Il tempo a nostra disposizione a Fes è finito, così salutiamo questa città che tanto ci ha insegnato, sgattaiolando via al buio, senza neanche far colazione.

Peccato, ché le colazioni da queste parti son davvero appetitose. Per fortuna però abbiamo ancora dei biscotti, che son certa ci faranno comodo lungo il tragitto. Chefchaouen infatti è a quattro ore di distanza, avoglia a buttar giù biscotti!

La strada per raggiungerla si snoda sinuosa tra distese di fichi d’india, ulivi, alberi da frutto. È un incessante susseguirsi di colline dove la natura cresce rigogliosa, che rivela un Marocco che non ti aspetti e che io non riesco a mollare neanche per un istante, felice che la vita abbia trovato anche oggi il modo di sorprendermi.

Le donne e gli uomini che si adoperano nei campi son vestiti di mille colori, ma tutto intorno a loro è tinto d’un verde brillante, che sotto il sole acceca e meraviglia. Un verde che un po’ alla volta sale su, verso il cielo, e d’un tratto si fa montagna.

È qui che si trova la famosa città blu del Marocco, Chefchaouen, il cui nome pare uno scioglilingua e infatti ogni volta che proviamo a dirlo, oh, chissà come ci scappa qualche vocale.

Ma per fortuna adesso ci siamo e di dirlo non abbiam più bisogno. Adesso c’è solo da tuffarcisi dentro, e allora, be’, se si tratta di questo, figuriamoci se ci tiriamo indietro. Così varchiamo Bab Souk e in un attimo tutto diventa blu. Le porte, le pareti, le strade… È un blu che non si può capire finché non ci si è dentro, fino a quando ne hai così pieni l’anima e gli occhi che ti viene da chiederti, non staremo mica diventando blu anche noi?

Francesco però è dello stesso colore di sempre. Torneremo a casa un po’ più colorati di quando siam partiti, questo è sicuri, ma ahimè, non saremo blu.

L’unica nota dolente di questo gioiellino incastonato nella roccia, son le decine di obiettivi e smartphone che si vedono spuntare ad ogni angolo. Evitarli è davvero un’impresa impossibile. Ci rassegnamo quindi a fare il giro del mondo in quegli scatti e a tirar dritto, ché s’è fatta una certa e ad aspettarci ci sono la tajine, i falafel e l’hummus, più buoni che abbiamo mangiato fino ad ora. I dolci, poi… ma che ve lo dico a fare?

Sulle montagne del Rif, però, il sole cala in fretta e a noi non resta che salire in cima ad una terrazza e stringerci l’un l’altro per salutare il giorno che finisce. Il buio sembra spazzar via ogni cosa, ma un po’ alla volta le strade tornano ad illuminarsi, proprio come gli angoli e le case… così, un attimo dopo, siam lì a tirare un sospiro di sollievo, ché sebbene il giorno sia finito, la città mica ci sta all’idea di chiuderla lì. Allora si mostra un’ultima volta e lo fa nel migliore dei modi: tornando ad indossare per noi il suo blu.

Mellah _ Fes, 22 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

La bella Fes ci ha trasmesso un tale relax da spingerci a non mettere la sveglia, ma a fare sì che a svegliarci questa mattina fosse il sole, entrando in punta di piedi attraverso i vetri colorati delle finestre.

È un sole, questo, che quando dice di picchiare picchia sul serio, eh, ma per fortuna a placare la sua foga ci pensa il vento che soffia dell’Alto Atlante e rende l’aria una meraviglia. E così, in un attimo siamo fuori.

L’idea iniziale è quella di camminare fino al quartiere ebraico, poi si vedrà. Al solito, però, le cose van tutte per un altro verso. Prima di arrivare al Mellah, infatti, la nostra attenzione ed i nostri passi si perdono un po’ ovunque. Ma poco importa, perché quell’ovunque sono luoghi, attimi, persone… Son bambini che gridano e scorrazzano per le strade, gentili signori che ci indicano la via e giovani studenti, che stan fuori dalla scuola a ridere e a far merenda, un po’ come facevamo noi a Incisa quando c’era l’Elvira, solo che qui al posto della schiacciata hanno pita e zuppa di legumi.

È proprio vero: tutto il mondo è paese. E forse è anche bello così, ritrovar se stessi altrove.

Poi, be’, c’è chi invece di ritrovarsi si perde ed è Francesco, che da qualche giorno ha iniziato a profumare di fiori d’arancio. Ma questo è il meno. Ieri sera, infatti, l’ho visto bere una limonata per aperitivo e cenare con un piatto di frutta. Ed è stato allora che mi son proeccupata, ché è vero, viaggiare ti cambia, ma mica fino a questo punto.

Quando però oggi l’ho visto nel souk della Medina, che addentava con soddisfazione un panino bisunto, ho finalmente tirato un sospiro di sollievo: è ancora lui, grazie a dio!

E menomale, dico io, ché a me lui piace così com’è, assorto come me nei suoi pensieri, mentre mi sta accanto su strade intricate, sempre più in discesa. E noi scendiamo, scendiamo… Scendiamo fino Place Seffarine, dove un’intima terrazza permette ai nostri sguardi di perdersi sulla città anche dall’altro, tra i verdi tetti delle moschee che spiccano sul bianco d’intorno.
Dal basso si sentono martelli battere sul rame. Sono i fabbri, che sebbene si muovano ognuno ad un ritmo diverso da quello di chi gli sta di fianco, riescono a tirar fuori una sinfonia niente affatto male e allora a noi, quassù, non resta che godercela, muovendo piedi e spalle a ritmo.

È un attimo di pace assoluta, al riparo dal sole e col vento tra i capelli, che s’interrompe solo quando, ad un tratto, rinvengo dal sogno e mi domando, chissà, se riusciremo mai a trovare la forza di scendere di qui?

Fes el Bali _ Fes, 21 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

Da queste parti non fai in tempo ad abituarti che già te ne devi andare e così, esattamente come siamo arrivati, si riparte: in piena notte, mentre in strada si aggirano cani sciolti e facce che son tutto un programma. Ma a differenza dell’inizio, i nostri passi adesso son più sicuri. Non potrebbe essere altrimenti dietro a quelli dell’uomo della notte. È stata la sua, la prima mano che abbiamo stretto a Marrakech ed è bello che sia anche l’ultima che stringiamo prima di lasciare la città.

Una manciata di ore dopo, infatti, siamo a Fes, dove ad accoglierci è uno spicchio di luna arancione. È una visione preziosa che dura appena un attimo. Il sole infatti è già lì che incalza, impaziente di prendere il suo posto ed iniziare a splendere. Mica come noi, che con appena tre ore di sonno, siam tutto tranne che splendenti.

Questo però non ci impedisce di darci sibito in pasto alla Medina di Fes el Bali, che con le sue 9600 strade è la più grande e antica del Marocco. Son strade, queste, che chissà quante ne han viste in centinaia e centinaia di anni. E oggi, be’, gli è toccato vedere pure noi, scorrazzare in qua e là al seguito di Mohammed Cous Cous.

Uno con un nome simile, non poteva che essere dei nostri. E menomale, mi viene da dire, perché Mohammed è un tipo in gamba, che ci racconta un sacco di cose interessanti.
Ci dice, ad esempio, che la città vecchia è composta da ben 186 quartieri, ognuno dei quali ha una moschea, un bagno turco, un forno, una fontana e una scuola coranica. Ne vediamo alcuni con i nostri occhi, constatando che è ancora intorno a questi cinque punti che si svolge la vita delle persone dentro le mura. Insieme ai mercati, ovvio, che qua son davvero dappertutto.

Gli occhi faticano a trovar pace, mentre rimbalzano tra mura scorticate, il cielo azzurro e gli splendidi palazzi. I dettagli di quest’ultimi son frutto del lavoro degli stessi abitanti di Fes. È tutto fatto a mano, eh, ci assicura Mohammed, perché la gente qua non sa mica lavorare a macchina. Infatti, questa è una città di artigiani, dove i padri trasmettono il mestiere ai figli: sia che si tratti di intagliare il cedro, impastare il gesso, tingere i tessuti o perché no, tesserli. Anche per i conciatori di pelli funziona così. Vederli all’opera trasmette tutta la loro fatica, che è così tanta da riuscire fiaccare le gambe anche a noi. Allora buttiamo giù un pasticcino, e tra miele, mandorle e chi più ne ha più ne metta, sbam, e un attimo e ci riprendiamo.

Ad alleviare i miei pensieri per le fatiche dei conciatori, però, vi è il fatto che per fortuna oggi è venerdì e nella Medina non si lavora, per lo meno non tutta la giornata. Sono le una, infatti, quando il canto del Muezzin richiama alla preghiera l’intera città e tutti, persino loro, ben presto si recheranno alla grande moschea.

Noi facciamo lo stesso, confondendoci tra grida, sorrisi e saluti di uomini, donne, ragazzi, bambini… Oggi non manca davvero nessuno. Ve l’ho detto, ci siam persino noi, che seppur in un modo tutto nostro, ci sentiamo parteci a questo loro giorni di festa.

Esserci è affascinante. Un impagabile regalo, che dopo il caos di Marrakech ci riporta a ciò che più sentiamo appartenerci: una dimensione umana. Oserei dire più raccolta, anche se, col milione di abitanti che Fes si ritrova, non so se ‘raccolta’ sia la parola giusta.

Quel che è certo è che questo era ciò di cui avevamo più bisogno. Un luogo dove sfiorarsi, ascoltare, tornare a guardar le cose con meraviglia e ad un tratto, finalmente, fare silenzio e sentirsi vicini.

Jardin Majorelle _ Marrakech, 20 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

Più ci penso più mi convinco che per quanto appaia enorme, questo mondo è più piccolo di quanto si pensi. Ne ho avuto la riprova ieri sera, quando spaparanzati nella terrazza del Riad, abbiam sentito due ragazzi avvicinarsi parlando toscano.
Un saluto, uno sguardo, poi qualcuno si è riconosciuto e in un attimo, oh, la terrazza si è trasformata in un vero e proprio salotto, con chiacchiere a non finire e tè alla menta che sgorgava in ogni dove.

Il più delle volte le cose van così, fan tutto da sole. E anche se non l’avresti mai detto, può capitare di ritrovarsi nel cuore di Marrakech a parlare di Colle Alta, mentre nella notte risuona il canto del Muezzin.

L’invito alla preghiera qua a Marrakech si ripete anche di giorno, più volte, e per quanto all’inizio possa risultare strano, il suo presentarsi, regolare ed immancabile, è un modo per entrare in contatto con la città e la sua gente.

Un altro modo per farlo è scendere in strada e confondersi con loro, donne, uomini, bambini. Allora, finita la colazione, usciamo ed iniziamo a camminare, decisi a raggiungere il Jardin Majorelle.

Per quanto sia presa d’assalto dai visitatori, quell’oasi verde è capace di regalare visioni splendide ed un silenzio irreale. Cose assai preziose per una città come questa, che finché sei per strada non ti dà un attimo di tregua, tra motorini che sfrecciano, auto, carretti trainati da asini… quanto ad attraversare, be’, non ne parliamo, anche se, detto tra noi, in questo l’essere italiani ha decisamente i suoi vantaggi.

Il fatto di riuscire a cavarsela meglio di altri, non significa però che ci piaccia star nel traffico, così abbandoniamo la città nuova per ributtarci nella Medina. In una parte per noi ancora inesplorate, più a nord e lontana dai caotici souk. Qua le strade si fanno più ampie, gli artigiani intagliano il legno ed il profumo del pane appena cotto riempie l’aria, riuscendo in un istante a farmi sentire a casa, sebbene quella che chiamo casa si trovi a chilometri e chilometri di distanza.

Chi invece tra queste strade a casa c’è davvero sono i gatti, che osservano attenti e col muso all’insù ogni mossa dei macellai, mentre poco più non là, dei polli si agitano in una gabbia. Del resto da queste parti ognuno ha il suo posto, tranne le spezie, che chissà come son capaci di saltar fuori ovunque. Sono incontenibili e così tante da riuscire a stonarti occhi e naso in un solo colpo. Ma la cosa non ci spaventa affatto. Tutt’altro. È proprio adesso che andiamo avanti, stonati e felici, ché la felicità, si sa, è fatta di piccole cose: ridere insieme, mangiare un appetitoso tajine, perdersi nei colori di un tramonto… ma soprattutto, cari miei, riuscire finalmente ad orientarsi.

Medina _ Marrakech, 19 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

La speranza di riuscire a capirci qualcosa in questa Medina l’avevamo lasciata fuori dalla porta già ieri notte, quando una volta raggiunto il Riad con l’aiuto d’un ragazzo, ci siamo guardati come a dire, ma dove diavolo siamo finiti?

Be’, per fortuna la luce sa il fatto suo e trasforma a tal punto le cose da esser riuscita, questa mattina, a dare alle vie un volto diverso, decisamente più colorato e vivace.
Nonostante questo, abbiamo comunque rinunciato a bussola e mappa, per buttarci un po’ a caso nel groviglio di vicoli che è questa città.
Per quanto infatti uno tenti di tenere a mente i suoi passi, ripedendo tra se e se: destra, sinistra, poi di nuovo sinistra… ne spuntano di nuovi in ogni dove, e in un attimo, puff, tutti i conti van per aria. Meglio quindi risparmiare il fiato fin dall’inizio. A meno che non si voglia provare con le briciole come Pollicino, ma a giudicare dai gatti affamati che si vedono in giro, be’, ho come l’impressione che anche quelle durerebbero il giusto.

Allora non resta che lasciarsi condurre dagli odori, dai colori e dalle tante persone che si muovono intorno a noi. Oggi, poi, che c’è anche il mercato berbero, con un sacco di prodotti artigianali. Fico, pensiamo. Anche se, un attimo dopo, più che in un mercato, la sensazione è quella d’essere finiti in un giro di schiaffi. Ci ritroviamo, infatti, a bere tè, mentre intanto lavoriamo l’argan insieme a donne berbere, annusiamo pietre e fiori d’arancio, proviamo creme per il viso… tutto più o meno contemporaneamente. E alla fine, non contenti, riusciamo anche a spendere. Quanto? Be’, meglio non dirlo. Certo è, che per quanto riguarda le spese extra con oggi abbiamo chiuso.

A qualcosa comunque questa immersione nel mondo berbero è servita, adesso infatti distinguo alla perfezione tutti gli odori che emana questa città: curcuma marocchina, cannella, menta, argan, rosa masqueta… e ogni tanto, buttata là, una bella zaffata di pipì. Ma quella, be’, la riconoscevo anche prima d’aver incontrato le donne berbere.

Per quanto sia fiera di riconoscerli, va detto che alla lunga tutti questi odori rischiano di dare alla testa, così decidiamo di tirare un attimo di fiato. Per farlo servono gli ampi e silenziosi spazi di Palazzo El Badi. E visto che ci siamo, anche Palazzo El Bahia, che nel suo susseguirsi di cortili fioriti, intarsi e piastrelle dai mille colori, è una vera oasi di pace.

Una pace che però svanisce all’istante quando entriamo in piazza Jemaa El Fna, dove tra incantatori di serpenti, scimmie al guinzaglio ed enormi banchi di frutta secca, ci siamo anche noi. E insieme a noi, altra gente. Un sacco di altre gente, che mangia, ride, canta, cammina… e sembra non averne mai abbastanza.

Che piazza questa piazza. Marrakech non sarebbe la stessa senza. Anche se, per quanto mi riguarda, non ho ancora ben capito se mi piace o no.
La osservo, mentre intanto il sole ci saluta e noi buttiamo giù l’ennesimo tè alla menta.
Domani è un altro giorno. Chissà, magari saprò darmi una risposta.

Marrakech, 18 febbraio

In viaggio alla scoperta del Marocco

Io, sono arrivata a pensare che più che un vizio, ‘sta storia dello zaino sia un vero e proprio destino.
Sarà che non sempre la casa da cui esco al mattino è quella in cui torno la sera; o forse sarà che di fronte ai repentini cambi di programma che questa vita ci riserva, in qualche modo bisogna farsi trovar pronti, e così, gira e rigira, va a finire che lo zaino ce l’ho sempre in spalla.

Certo, i miei zaini non son mica tutti uguali. Ci son quelli da un giorno e via e poi c’è quello per le occasioni importanti, quello tinto d’azzurro, ma che se solo potesse parlare, di colori da raccontare ne avrebbe una bella manciata.

Era da un po’ che non lo mettevo in spalla, quello zaino lì, tanto che temevo quasi di non esserne più capace. E invece, be’, ho scoperto che mettersi lo zaino è come andare in bicicletta: una volta che hai imparato, non lo dimentichi più. Diventa parte di te, qualcosa che ti vien fuori in un modo così naturale da darti l’impressione di appartenerti da sempre.

È un po’ la stessa cosa che provo quando penso al bel casino che ho di fronte, che adesso mi sorride, intento com’è a scaricare l’App di una bussola. Non sa che mentre ricambio quel sorriso, son qui a scrivere di noi e di quanto sia bello, nella vita, aver accanto un casino come lui. Con o senza bussola.

Anche lui è un tipo da zaino in spalla, perché come accade a me, anche nel suo caso, la casa da dove esce al mattino non sempre è la stessa in cui rientra a sera.
È una cosa che negli ultimi tempi accade sempre più spesso e detto tra noi, non è niente male. Quel che conta alla fine del giorno, infatti, è ritrovarsi, e poco importa dove.

Allora, visto che con questa storia dello svegliarci un giorno qua e un altro là ci abbiam preso gusto, ci siamo detti: perché non facciamo un viaggio? Ché almeno, oltre a svegliarci ogni mattina chissà dove, finiamo anche per passare le giornate insieme. Un’idea che ci piace ancora di più. Così, quasi senza accorgercene, siamo arrivati fin qui, nel cuore pulsante di questa città, che anche se ormai è più di mezzanotte non sembra affatto intenzionata a dormire.

Noi invece crolliamo, ché siamo in viaggio da ore e s’è fatta una certa.
A domani Marrakech.
Sarà bello svegliarsi qui, insieme.

il Venerdì _ 45

Ricordate la scorsa settimana, quando vi raccontavo il mio espediente per andar oltre la nebbia?
Be’, ho come la sensazione d’aver un po’ esagerato con questa storia dello stringere gli occhi. In questi giorni, infatti, ho visto un sacco di cose e quando dico un sacco lo dico con un po’ di rammarico, ché detto tra noi, alcune di quelle cose me le sarei anche evitate.

Ho visto, ad esempio, un ragazzo di vent’anni, che dopo aver subito un’estrazione ha chiesto al dentista: “Ma poi il dente mi ricresce?”.

Ho visto poi genitori far finta di niente mentre i loro bimbi se ne stavano distesi pancia a terra a nuotare in un mare di costruzioni colorate, urlando come se al mare ci fossero davvero. Invece no, quella era la sala d’attesa di uno studio medico. La stessa in cui un uomo ha preso a camminar su e giù, cellulare alla mano, a far sentire i fatti suoi a tutti, interessati e non. E dopo di lui, ho visto una signora di ottant’anni, incuriosita dai calendari sul bancone.
“Bellini”, ha preso a ripetere tra sé e sé e dopo un po’ che parlava da sola, s’è girata verso la figlia e ha detto: “Si potrà prendere?”.
“Cosa?”, ha detto la donna.
“Un calendario”.
“Ma se ce l’hai già”, ha risposto scocciata.
Allora mi sono inserita io: “Ne vuole uno signora?”.
“Si possono prendere?”, ha domandato, già pronta ad acciuffarne uno.
“Certo, solo che chiediamo un contributo di 5€ che verrà devoluto all’Associazione…” e mentre tentavo di spiegarle i fini di quella raccolta, la vedo che ritira la mano, storce il naso e bofonchia: “Un po’ cari…”.
Dico io, signora, per prima cosa c’era scritto (e anche grande), secondo di poi, mica gliel’ha prescritto il dottore, il calendario…

Ma poi, d’un tratto, in quella che più che una sala d’attesa pareva esser diventata la piazza d’un mercato, tra via vai, grida e contrattazioni, vedo lui. Be’, a voler essere precisi lo sento. Già, perché in un rarissimo ed irreale attimo di silenzio, avverto alle mie spalle uno strano stac stac. Così mi giro, ed è in quell’istante che lo vedo, disinvolto e sereno, che come se niente fosse, testa bassa e gambe accavallate, si taglia le unghie.
Stac stac

Non so se ridere o piangere. Dovrei arrendermi, credo, issar bandiera bianca e darmi alla fuga. Però poi torno a guardarlo, immerso nel caos ma del tutto estraneo ad esso, e tra uno stac e l’altro, in un misto d’invidia e ammirazione, penso, però… coi tempi che corrono son doti anche queste.

il Venerdì _ 44

Il venerdì che era saltato fuori all’inizio era un venerdì che somigliava alla nebbia di questi giorni: gelida e così fitta da riuscire a togliere in un sol colpo vista ed entusiasmo.

Ma state tranquilli, non è che d’un tratto abbia deciso di scrivere di meteo. Prima che questo accada ho l’impressione che dovranno passare un bel po’ di anni, ché di poche cose son certa in questa vita ma di sicuro finché continuerò ad incontrare tutta ‘sta gente gli argomenti non mancheranno.

È che più vado avanti più mi da l’idea che in questa vita alcune persone che ti capitano a tiro, son proprio come questa nebbia, messe lì appositamente a toglierti vista ed entusiasmo. Una roba che me la mette così male, ma così male, che mi son detta, sarà mica il caso di lasciarla andar via ‘sta nebbia almeno oggi che è venerdì?

La risposta non può che essere si. Un SI convinto, che per uscir fuori così convinto richiede un esercizio quotidiano, fatto di occhi serrati e tentativi disperati di mettere a fuoco quello che si trova oltre questa fottuta coltre di nebbia.
Una roba che tutto sommato viene quasi naturale ad una miope come me, che serro gli occhi dai tempi dell’università.
Anni ed anni d’esercizio, insomma, rispetto ai quali ho sempre pensato, che palle, mentre oggi giocano (e non poco) a mio vantaggio.

E allora via, ad occhi serrati oltre questa nebbia, per finire sulla Mau che dopo un mercoledì pomeriggio di segreteria racconta barzellette con entusiasmo o su Graziano, che ieri s’è fermato a raccontarmi con un sorriso bello pieno le sue giornate da pensionato dedite ai due nipotini.
Finisco anche sulla Ele e la sua risata incredula seguita da un altrettanto incredulo IO NON HO PAROLE, dopo aver inseguito un paziente in preda al mal di denti che appena entrato in studio si è lanciato in poltrona da solo senza nemmeno passare dal via.

Oh, a forza di star così serrata, arrivo a vedere persino la Paola ed i pasticcini che ha portato a noi segretarie per ringraziarci del fatto che il suo 2019 si è chiuso senza alcun debitore. E allora via, a godersi ‘sta coccola, ché visti i tempi che corrono ce la siam proprio meritata. Un po’ come i miei stivali, che seppur nuovi di pacca parevano destinati a restare chiusi in un armadio per sempre, mentre invece, adesso, grazie ai piedi della Elsa, potranno finalmente avere una vita vera, tra prati, pozzanghere e luoghi meravigliosi.

Insomma, cari miei, come avete potuto vedere, serrare gli occhi può davvero portarci altrove. Non so dirvi esattamente quanto lontano, ma di sicuro ci catapulta oltre la nebbia che vorrebbe tanto toglierci la vista, l’entusiasmo, i sogni, il piacere delle piccole cose… Tutta roba che invece dobbiamo tenerci stretta e difendere ad con occhi serrati e cuor leggero.

Una cosa che non so perché mi ricorda tanto il titolo del nuovo libro di Fabio Genovesi: Cadrò, sognando di volare.

Parole che che messe insieme così mi piacciono un sacco. Per questo le prendo volentieri in prestito per chiudere un venerdì che, ad occhi serrati, si ribella al grigiore che certa gente vorrebbe portare nelle vite degli altri.

Se lo si vuole davvero, infatti, la vita può essere leggera e piena di luce. E se poi capita di cadere, pace. Per lo meno sarà stato a causa del troppo sole e non per la fitta nebbia.

Leggete Fabio Genovesi.
Leggete “Versilia Rock City”.

il Venerdì _ 43

Il mattino, si sa, ha l’oro in bocca, così stamani mi son svegliata con l’intenzione di chiudere la settimana al meglio, facendo tutto quello che mi ero riproposta di fare in ‘sti giorni e potermi poi godere il weekend in totale relax.
Allora son saltata fuori dal letto all’alba per fare colazione con l’Ale e darle la locandina del mio libro, ché lei è talmente entusiasta di sostenere questo mio progetto e talmente abile nel farlo, che m’ha detto: “Oh Ire, dammene una copia, la metto in azienda. Vedrai!”
Così ci siamo date appuntamento al bar. Solo che poi, arrivata lì, avvolta nella nebbia delle 7.30 e con gli occhi ancora abbottonati, mi sono accorta d’aver dimenticato la locandina. E che cazz… Ho pensato, dandomi più volte della scema, ma poi mi son detta, poco male, ché almeno ho avuto un’occasione per vedere l’Ale, conoscere Barbara e tuffarmi di prima mattina in un buon cappuccino. Ciaf!!

Una partenza, quella di oggi, che è stata la sintesi esatta degli ultimi giorni, fatti di tentativi di far le cose al meglio, superando ostacolo dopo ostacolo. E dopo ogni ostacolo superato, taaaac, eccone subito un altro. Giusto per tenersi in allenamento, eh.

Si, a lavoro in questi giorni è andata proprio così. Per questo ho deciso di non regalare troppe risate, sorrisi, magari attimi di tenerezza… Ma di ‘usare’ questo Venerdì 17 per offrirvi qualche interessante spunto di riflessione sull’Italia di oggi.

Per farlo, però, devo partire da quando, qualche sera fa, siamo andati a letto che era il 2019 e l’indomani ci siamo svegliati nel 2020, sbam!
Un cambiamento mica da poco, eh, che ha portato un nuovo anno, un nuovo decennio e anche un sacco di altre novità, che non so se sia possibile definire buoni propositi, chissà… Quel che è certo è che da allora, cioè dal primo gennaio duemilaventi, il mio lavoro, assieme a quello delle mie colleghe, si è complicato un po’, dato che non so se lo sapere, ma da quest’anno, per poter detrarre le cure mediche (nel nostro caso odontoiatriche) i cittadini dovranno effettuare il pagamento solo con mezzi tracciabili (carta, bancomat, assegno… per intendersi, tutto ciò che non è il contante), conservando non solo la fattura ma anche l’attestazione dell’avvenuto pagamento (scontrino pos, contabile bonifico…).

E fin qui, niente di trascendentale. Figurariamoci, noi il pos ce l’abbiamo da sempre e le fatture si fanno TUTTE, ad ogni sacrosanto pagamento che riceviamo.
Pensavamo, quindi, che l’impatto con questa novità sarebbe stato pari a zero. Invece, be’, in questi giorni ci siamo accorte che per aiutare i cittadini a detrarre le loro spese, abbiamo ‘perso’ (o meglio, rimandato) la riscossione di più d’un pagamento. La gente, infatti, davanti a questa novità dello stop ai contanti per le detrazioni cade dal pero. C’è chi si fruga in tasca e dice “Adesso ho solo i contanti.Tornerò con la carta. Va bene prossima settimana?”
E allora, che fai? Gli dici di no?
Ma i più radicali son quelli d’una certa età, che se ne escono convinti: “Sie bah! Un ce l’ho mica io i’ bancomatte. Io fo’ co’sordi!“.
E allora giù, a spiegare che quel che dici, lo dici per loro, mica per te, ché in realtà tu quei contanti potresti pure prenderli e far fattura, ma poi loro non la possono scaricare e con tutti i soldi che già regaliamo allo Stato, signori miei, gliene vogliamo lasciare altri?

Insomma, da queste parti, dove non facciamo altro dalla mattina alla sera che fare: cure dentistiche, riscossione pagamento, regolare fattura; cura, pagamento, fattura; cura, pagamento, fattura; … l’impatto con la novità è stato un bel po’ impegnativo.
Se contiamo, poi, l’aumento dei costi relativi al maggiore uso del pos (tutti a carico dell’azienda, ovvio, e senza alcun tipo di agevolazione), la cosa si fa decisamente interessante.
Mai però quanto la novità che abbiamo appreso ieri dalla commercialista e che ci ha lasciate letteralmente senza parole.
Se una persona, infatti, vorrà poter usufruire delle detrazioni fiscali, oltre a pagare le cure con bancomat, carta, bonifico o assegno (sacrosanto, per carità), conservando fattura e copia della transazione, il mezzo utilizzato per il pagamento dovrà essere a lui/lei intestato. Questo significa, ad esempio, che se un anziano dicesse al figlio “Puoi pagare tu per me col bancomat – così posso detrarre – poi ti rendo i soldi in contanti?”, be’, non è ancora ben chiaro se poi quella fattura la potrà scaricare oppure no.

Ed allora io, con tutta la buona volontà che ho e il desiderio di contribuire a rendere questo un Paese migliore, dico, ma siamo sicuri che questo ci aiuterà a far emergere i furbi? A colpire finalmente gli evasori?

Muah
Sinceramente di lavoro ne ho fin troppo per metter bocca in quello degli altri, ma se fossi io a dover cercare soluzioni, intendo delle soluzioni serie, partirei da quella paninoteca di Siena, a ridosso di Piazza del Campo, in cui il 6 gennaio ho speso 18 € per due panini e una birra e quando ho mostrato il bancomat, con l’intento di usarlo, mi son sentita dire: “Eh, no, per pagare solo contanti, ché il pos ancora non ce l’abbiamo”.
Allora ho racimolato la moneta (per fortuna che ne avevo) e ho pagato. Il ragazzo ha preso tutto e ha aggiunto: “Lo scontrino te lo porto poi io al tavolo”.

Oh che l’ha’visto te?!

il Venerdì _ 42

Anche se da dieci giorni abbiamo fatto un balzo in avanti, entrando in un anno fatto di cifre tonde e doppi zeri, i ritmi mi sembrano rimasti più o meno quelli di prima.
Dico più o meno perché per quanto ognuno abbia sulle spalle il suo bel carico d’impegni e il piede di nuovo pronto a spingere sull’acceleratore, al momento i più stanno tenendo una velocità di crociera: passi rilassati, parole pronunciate con calma e sorrisi. Ma parecchi, eh, decisamente più di quelli che mi sarei aspettata. Tanto da arrivare a guardarli con sospetto e a chiedermi, ma tutti ‘sti sorrisi, ‘sta beatitudine, non saranno mica un effetto degli zuccheri dei giorni scorsi?

Be’, su alcuni non ho dubbi, di zuccheri durante le feste devono averne buttati giù molti, ché a cose normali, credetemi, una simile calma me la sarei sognata.

Poi, però, ci son quelli che son beati anche senza additivi, ché son già dolci di per sé e amano così tanto la vita che ti sorridono a prescindere. Come la signora Anna Maria, capace di regalarmi ogni volta che la vedo più d’un sorriso, anche se il dentista le ha levato un dente ed io penso, però, non è certo il modo migliore d’iniziare l’anno, ma lei arriva in segreteria e col suo bel romanesco mi dice: “Embè? Basta che me lo rimette, eh, ché io voglio magnà”.

Ed io, oh, quando se ne esce con certe frasi, non so se sorridere o abbracciarla, ché il suo spirito di bambina in quel corpo di nonna mi manda alle stelle, tra struggente tenerezza e vivace allegria.

Quel che è certo è che di persone come lei, pronte a dir quel che pensano ad alta voce, senza badare a chi, di fianco, scuote il capo intimidito e vorrebbe metterla a tacere, ce ne vorrebbero decisamente di più. Anche perché le cose che dice son cose belle, de’ core… capaci di rallegrarmi l’anima all’istante, come l’altro giorno, quando si è voluta assicurare che io avessi trascorso un buon capodanno, ché chi comincia, si sa, è a metà dell’opera e a quanto pare è così anche a Trastevere, dove è nata.

“E lei – m’ha detto (perché Anna Maria mi da del lei anche se ho meno della metà dei suoi anni) – dove è stata a Capodanno?”.
“Son stata vicina, Anna Maria – ho risposto – Sono stata a Firenze”.
“Ah…”, ha fatto come delusa, quasi dispiaciuta.
“Ma son stata bene comunque, eh”, l’ho rassicurata.
Allora l’ho vista tornare a illuminarsi: “Era col fidanzato?”.
“Eh sì”, le ho sorriso, sapendo che avrei destato in lei più d’una curiosità, visto che ogni volta mi chiede se mi son sposata, ché a detta sua l’amore mi fa proprio bene, mi ringiovanisce.
E infatti m’ha sorriso: “Ed è rimasto con lei fino alla mattina dopo?”.
“Certo, eh, anche quella dopo, e quella dopo ancora…”.
Allora sì che ha sorriso, ché ai suoi tempi una roba del genere se non si era sposati non la potevi mica fare. “Te possino!“, m’ha detto divertita e dopo avermi salutato se n’è andata via, radiosa, lasciando dietro sé un’allegria che m’ha accompagnato per quasi tutto il giorno.


Già, perché se c’è una cosa che mi son ripromessa di fare in questo 2020 è di tenere ben strette le cose belle che mi capitano. Quindi grazie, Anna Maria, per avermi regalato una manciata di sorrisi ed aver dato al nuovo anno un bell’inizio friccicarello.