Lisbona, 31 gennaio

Io, c’ho ‘sto vizio di mettermi lo zaino in spalla e via, che a pensarci, certo, ci son vizi ben peggiori, ma anche questo non è mica da poco, ché se poi incontro qualcuno come me, pensavo, è un gran bel casino: metti che gli zaini diventano due, chi ci ferma più?

Ora che quel casino se ne sta seduto di fianco a me su questo aereo, ripenso ai primi passi mossi insieme, ormai più di un anno fa. I miei erano leggeri, ma a tratti, lo ammetto, son stati anche di piombo, ché allora, mica lo conoscevo questo casino qui.

Ad essere sincera non lo conosco del tutto neanche adesso. Ma per certe cose si dice non basti una vita intera, quindi non ha senso star qui a preoccuparsi, ché non lo so mica se mai ce l’avremo tutto quel tempo, io e lui.

La cosa comunque non m’interessa, ché anche se adesso siamo in due, io non son certo cambiata e invece di perder tempo a pensare, be’, preferisco senz’altro godermelo, il tempo, soprattutto oggi che sono a Lisbona.

Ero qui anche un anno fa, da sola. Il ricordo di quei giorni mi scalda il cuore quasi quanto l’esser di nuovo qui, stavolta in compagnia di questo bel casino. Uno di quelli belli davvero, in cui buttarsi a capofitto per non uscirne più, ché anche a lui piace vagare senza meta per le vie di questa città, starsene in silenzio in riva al Tago, riempirsi gli occhi e pure la stomaco, ché è finalmente arrivata l’ora di pranzo e dico io, non ce lo facciamo pulvo e bacalhau?

Per smaltire, poi, saliamo fino al Chiado, che è un bel po’ all’insù, ma noi andiamo convinti, a capo basso, ché se ci scoraggiamo oggi che siam solo all’inizio, dico io, dove diavolo pensiamo di andare?
E chissene se a una certa inizia a piovere, i piedi si fan zuppi d’acqua e i capelli arruffati, ci chiudiamo al caldo in un pub nel Barrio Alto, e con due belle birre, be’, ecco che passa la paura.

il Venerdì _ 07

Questa settimana è volata via senza che me ne accorgessi e l’ha fatto in appena tre giorni. Già, perché due li ho passati a casa, sotto le coperte, ché non stavo per niente bene. Raffreddore, mal di gola, febbre. Quest’anno, oh, non ne cavo le gambe. Ed io son qui che penso, vuoi vedere che zitto zitto, questo 2019 s’è messo in testa di farmelo capire che è giunto il momento di tornare un po’ a pensarci, alle gambe, ché fino a qualche mese fa macinavo passi a non finire, mentre adesso l’unica cosa che riesco a macinare sono pensieri, talvolta parole.

Intendiamoci, se dipendesse da me starei fuori a camminare tutto il giorno, senza niente e nessuno a ricordarmi di doverlo fare, ma nella vita, dico io, bisognerà pur guadagnarsi da vivere, no?

Bisognerà… certo, ma ho come l’impressione che debba un attimo fermarmi. Non tanto per star ferma, quanto piuttosto per riprendere a camminare. Intendo a faro sul serio, zaino in spalla e via.

A farmelo pensare son diverse cose, una tra tutte la mia auto, che ieri, proprio nel giorno in cui rientravo a lavoro dalla malattia, s’è fatta trovare con una gomma a terra. Dico io, più segnale di così.

E lì mi è venuto in mente il signor Luigi, che una volta m’ha detto: Coraggio! Nella vita ci vuole coraggio. E se non lo si ha, be’, ci si procura un paio di pinze e si piglia. Ché sennò, bella mia, l’è un casino.

Luigi ha una settantina d’anni e una risposta per tutto. Vino caldo e miele, m’ha detto lunedì mentre per l’ennesima volta mi son soffiata il naso davanti a lui.
Avrei dovuto dargli ascolto, invece non l’ho fatto, e così me ne sono stata a letto due giorni. Chissà, magari se l’avessi ascoltato… E chissà se di risposte ne avrebbe avute anche per la mia gomma?
Be’, per fortuna, una risposta per quella me la son data da sola, ché quando Elio è nei paraggi, inutile dirlo, son sempre in una botte di ferro.

Il messaggio comunque è arrivato forte e chiaro: le gambe sono importanti.

La pensa così anche una coppia di pazienti un po’ in là con l’età che in questi giorni ha fatto visita allo studio.
– Una sera a settimana andiamo a ballare – ci hanno detto.
Azz, abbiam pensato io e la Clau, ché a pensarci, oh, son più attivi loro a settant’anni che noi a trenta.
– E che cosa ballate?
– Tango
– Tango? Wow, bello! – si è sorpresa la Clau – Così vi mantenete in forma, eh.
– In forma?! – ha detto la signora – per tenersi in forma, cara mia, la soluzione è una soltanto: chiudere la bocca.

E lì, silenzio. Un ‘si’ con la testa e via, mentre intanto, senza farmene accorgere, chiudevo la porta dell’amministrazione, ché non si avesse a vedere che di là pullulava di brioche come non mai. Del resto, si sa, il carboidrato tira su, e chissà se oltre che con l’umore non riesca a far lo stesso anche con i bilanci.

Be’, tornando a me, se voglio rimettermi in forze e tornare a camminare, da qualche parte dovrò pur partire. Brufen, tè caldo, riposo, vitamine del gruppo B… Le sto provando davvero tutte, ché in questa vita, penso, sono pochi quelli che non si meritano un’occasione e così, come ho detto oggi alla Mau, non vedo perché non darne una anche alla crema di pistacchio.

il Venerdì _ 06

E così, alla fine la voce è tornata. Tre giorni di assenza sono stati sufficienti ad impartire la lezione. Immagino pensasse questo, quando a forza di Brufen e tè caldo, un po’ alla volta è tornata a farsi sentire.

Adesso che siamo di nuovo insieme, lo ammetto, la sua mancanza un po’ mi manca. Se ci penso, infatti, non era poi così male avere una scusa per starmene zitta, evitando così di dover parlare a vanvera.

Già, perché a forza d’avere a che fare con gli altri, a volte si finisce per buttar lì parole a caso, quando invece le parole andrebbero usate con cura, attenzione. Ché non sembra ma son cose importanti, le parole.

Avrei dovuto dirglielo ieri al signor Maurizio, che ogni volta che viene in studio attacca a parlare quasi come se ci conoscessimo da una vita, io e lui. Cammina su e giù davanti al banco della segreteria, a suon di battute, domande…

Ieri, ad esempio, ce l’aveva con la mia tosse.
– È il fumo, ha detto.
– No guardi, veramente io, mai fumato.
– Allora l’è quello degli altri.
Ehm… no, a dire il vero non è manco quello, ma vaglielo a spiegare al signor Maurizio, che sebbene pensi di conoscermi, in realtà non mi conosce affatto. Così annuisco e lo faccio in silenzio, ché ho da risparmiare fiato e parole, appunto.

Preferisco conservarle per altri, infatti. Per Giancarlo, ad esempio, col quale starei a parlare per ore, dei nostri viaggi, del teatro… a fantasticare, a far scorta d’ossigeno.

Ma ahimè, in un lavoro come il mio non si può scegliere con chi avere a che fare. L’umanità è talmente variegata e credetemi se vi dico che qua dentro non ce ne facciamo mancare neanche una briciola. Così, può capitare di avere a che fare con la paziente che chiama per un’emergenza. Le dici di venire alle 11 perché prima il dottore non ha assolutamente modo di visitarla, ma lei fa finta di niente. Bene, risponde, allora alle 9.30 sono lì. Tanto, mica disturbo, mi metto buona in sala d’attesa… che io mi mordo le labbra per riuscire a star zitta, mentre penso che in fondo, si, meglio stare zitta, tanto con una così cosa diavolo parlo a fare?

Capita poi l’adolescente svogliato, che lo prenderesti a schiaffi una volta si e l’altra pure, ché quando entra in studio non alza manco la testa per salutare, intento com’è a spippolare col suo smartphone. È un attimo e penso, però, carini i giovani di oggi… e intanto mi sale un brivido lungo la schiena. Ad acquietarmi è l’arrivo del babbo, mai visto prima, ma per il quale provo istintivamente una certa solidarietà. Non dev’essere mica facile aver a che fare con quel soggettino lì. Poi però quell’uomo apre bocca: Senti, dice, oggi e’un posso pagare, ‘unn’ho preso manco i’portafoglio.

Buonasera, scusate, grazie… parole sconosciute, non pervenute.

E lì, torno sui miei passi e d’un tratto mi sento vicina a quel ragazzo e a tutti i giovani come lui, cresciuti da genitori che a stento mettono insieme una manciata di parole e quando lo fanno, chissà perché, dimenticano di usare quelle giuste.

Mi balza in testa la Mau, che di figli ne ha tre e ogni giorno si da un gran da fare, anche per insegnare loro le parole giuste. In questi undici anni di lavoro assieme, di cose ne ha insegnate parecchie anche me, ma ce n’è una che supera di gran lunga le altre ed è che il lupo, cari miei, e’un caha mai agnelli.

Oggi, un anno fa

16 gennaio 2018

Prendere la vita un po’ a caso è un concetto che mi piace. Così due mesi fa ho comprato un biglietto aereo. A caso, appunto, dicendomi che al viaggio avrei pensato poi. Poi, quel poi è arrivato, più veloce di quanto immaginassi, e guarda un po’, è esattamente oggi. Allora metto lo zaino in spalla e via, verso l’infinito e oltre.

Non so esattamente dove si trovi questo infinito, ma di sicuro per raggiungerlo si passa da Bologna. Così arrivo all’aeroporto e appena entro mi coglie un senso di smarrimento tale, che trovo conforto solo nello zaino che mi pesa sulle spalle. Del resto ne abbiamo viste più io e lui, che tante coppie d’innamorati. Il cammino portoghese verso Santiago, la Liguria a piedi, per non parlare di quando insieme ci siamo spinti fino in Islanda. È stato un bel girare, il nostro, anche se dall’ultima volta che ho preso un aereo sono passati quasi due anni. Così oggi mi sento arrugginita e un tantino vecchia, ma forse questo non dovrei dirlo, in fondo è solo da un anno che sono entrata nei trenta. Allora chissà, sarà che per la prima volta ho l’imbarco prioritario?

Prima d’imbarcarmi, però, passo dal gate, che va bene l’esser ‘vecchi’ e arrugginiti, ma i passi da compiere per salire sull’aereo sono rimasti gli stessi di qualche anno fa. L’aria è quella tesa di sempre, ma è una tensione composta, che non vuol dare troppo nell’occhio, ad eccezione di chi, prima di dire addio alla sua bottiglietta, tracanna acqua manco fosse il giorno del castigo.

Finito il serpentone, arrivo davanti a una macchinetta automatica che mi chiede di mostrarle la carta d’imbarco. Mi sembra di ricordare che ci fossero uomini e donne l’ultima volta, mani e sguardi veri, ma a quanto pare agli umani non fanno fare più neppure questo. Ho un moto di sdegno, ché per carità, ben venga la tecnologia, ma mi chiedo dove siano andate a finire tutte quelle persone. Avranno ancora un lavoro? Uno stipendio? Al primo contatto con gli umani che popolano questo luogo, però, mi dico che forse si, a volte è davvero meglio affidarsi alla tecnologia. Sono infatti davanti a questa macchina parlante, non so cosa diavolo fare, quando un’addetta ai lavori grida qualcosa da lontano. Parla con tre o quattro persone insieme e io non capisco che tra le parole che sta pronunciando ce ne sono alcune anche per me. Allora si avvicina e stizzita mi chiede: “Ma lei parla italiano?!”.

Dev’essere uscita dal liceo si e no tre giorni fa. Lunga coda di cavallo sopra la testa e un’altezza tale da arrivarmi all’ascella. “Si”, rispondo. Te? Ma questo non glielo dico. Non le dico neppure che anche se mi guarda in quel modo, forse tra le due la cretina non sono io. Lo penso, certo, ma non glielo dico, ché se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è esattamente farmi gli affari miei e poi, be’, mi appresto a vivere giorni di sano egoismo, tanto vale che le cose inizi a tenerle tutte per me sin da adesso.

Superato l’impasse, salgo a bordo e tempo zero mi si siede accanto un indiano, che per carità, mica per niente, ma ti pare il caso di mangiare la zuppa di cipolle prima di un volo? Chissà, magari ha pensato di godersi l’ultimo pasto, metti che qualcosa va storto… Mica come me, che ho soltanto un misero pacchetto di crackers. Li butto giù uno ad uno quasi di nascosto, non s’abbia a vedere che ho lo stomaco debole di una vecchia. Ma il mio sforzo è vano perché un attimo dopo, sarà l’entusiasmo del viaggio, sarà l’alta quota che da alla testa, le due signore in là con l’età alle mie spalle decidono che è proprio giunto il momento di una bella botta di vita e si lanciano nell’acquisto di un nuovo profumo. Pensa te che fortuna, eh!

Così, tra una fragranza e l’altra, nell’entusiasmo generale che si scatena alle mie spalle, mi sale una nausea che metà sarebbe bastata. Trattengo il fiato, leggo, cerco di dormire. Le provo davvero tutte, ma è un’agonia. Be’, per fortuna il volo è breve e ben presto tocchiamo terra.
Un sobbalzo e ci siamo.

E adesso?
Adesso siamo soli, io e il mio zaino. Che poi soli è una parola grossa, manco fossimo nel niente dall’altra parte del mondo. Non sono mica il Cero, che l’estate scorsa se n’è andato da solo in Sud Africa o l’Eli, che ha mollato tutto ed è andata a vivere a New York. Io in confronto sono una dilettante e pure a tempo determinato, perché amo partire, certo, perdermi in luoghi mai visti e confondermi tra gente sconosciuta, da scoprire o semplicemente sfiorare per qualche istante, ma col mio lavoro di segretaria, i giorni liberi a disposizione son quelli che sono, così tocca sempre tornare, e anche alla svelta.

C’è chi mi dice che non sono abbastanza ambiziosa, che potrei fare anch’io come i miei amici, un biglietto di sola andata per una nuova vita. Be’, forse chi lo dice ha ragione, ma intanto domani mi sveglio a Lisbona.
Mica poco.

il Venerdì _ 05

Io, non so bene come andrà, ma questo 2019 non è che all’inizio e già lo amo. Un colpo di fulmine, il nostro, che chissà, magari si rivelerà presto un fuoco di paglia, ma per ora son qui che me la godo.
L’anno infatti è iniziato nel modo giusto, andando al sodo, ché questo è un anno che non le manda mica a dire. Agisce, ecco cosa, e mentre lo fa, elargisce insegnamenti.

Questa settimana ho ricevuto il primo. O forse dovrei dire ‘ne ho fatto le spese’?
Già, perché per ricordarmi quanto sia importante ascoltare, da un giorno all’altro m’ha fatto andar via la voce. Lunedì sera parlavo, mentre la mattina dopo… Niente. Nada. Nisba. Voce non pervenuta.

Detto così, potrebbe sembrare una robina da niente, ma provate voi a stare nove ore al pubblico con la voce che pare quella d’un gatto stretto all’uscio, con i pazienti che schizzano da una parte all’altra dello studio e il telefono che squilla a diritto. Io, poi, che a lavoro non starei ferma un attimo. Figuriamoci zitta…

Il momento peggiore ha coinciso con la metà della settimana. Mercoledì, infatti, son capitati in studio tutti quelli che non dovevano capitare. Gino, ad esempio, settant’anni e passa sordo come una campana, che dico io, ma la capsula si doveva decementare proprio questa settimana?
Be’, a quanto pare si, e allora via.

Gino per oggi sono 35 euro.
Quanto?
35.
135???
Sgrana gli occhi.
No, 35…
Non capisco, dice sempre più confuso.
Ehhh, grazie al ca… no, questo non glielo dico, però lo penso, si, mentre ormai son lì che gli rido in faccia, ché io tutto questo disagio era da un bel po’ che non me lo sentivo addosso.

Di disagio, però, ne ho visto tanto anche negli altri. Ché non sembra, ma a star zitti il mondo pare amplificarsi. Si sentono un sacco di cose in più: belle, brutte e disagevoli, appunto.
Come quella paziente che ha l’abitudine di bucare gli appuntamenti e pagare le cure dopo i fochi, ma l’altro giorno se n’è venuta fuori con un ‘Come mai tutto questo ritardo oggi?‘, che dico io… dico ioooo……. anzi no, guarda, non dico, ché oggi non ho voce. E menomale.

Ma il mondo, si sa, per restare in equilibrio si nutre di contrasti. E per una persona così, ce n’è un’altra che sebbene sia la prima volta che mi vede, dice: Tranquilla tranquilla, tanto parlo io.

Ed è un tale sollievo che nel mondo ci sia anche questo. Intendo persone gentili, che ti sollevano dai pensieri, dalla laringite, e lo fanno con ciò che hanno. Chi una parola, chi una risata e chi invece, si fruga in tasca e tira fuori tre caramelle: Tieni bellina, tieni, che ieri ‘un t’ho mica visto tanto bene.

Che dire?
Bene non mi ci vedevo neanch’io, ma quella signora la ringrazio, ché se oggi finalmente riesco a mettere insieme due parole, be’, il merito va un po’ anche a lei.

il Venerdì _ 04

Quella che si è appena conclusa è stata una settimana strana, iniziata l’altro ieri e già finita.
Già, perché il nuovo anno, a Risana, ha preso il via con una settimana di soli tre giorni, il che, detto tra noi, come inizio non è stato affatto male.

Nonostante questo, i pazienti in studio non sono certo mancati. Il telefono ha squillato, il campanello ha suonato… ma il tutto è avvenuto in un modo diverso dal solito. Un modo strano, oserei dire soft, se penso alle corse frenetiche di una settimana fa.

Chissà, magari le mie preghiere sono finalmente state ascoltate o forse il merito è delle grandi abbuffate, che tengono tutti ancora in un irreale torpore nonostante le feste siano quasi finite.

Be’, quel che è certo è che l’avvio del nuovo anno ha coinciso con la quiete dopo la tempesta. E se la settimana prossima tornerà il delirio, poco importa. Intanto ci siam goduti questa, eh.

Dico ‘goduti’ non a caso, perché quando si è abituati a correre, lavorare così sembra quasi d’essere in vacanza. Niente noci di cocco o mare cristallino, certo, ma l’aria che si respira è senza dubbio più svagata del solito; tanto che a forza di respirarla, quell’aria lì, va a finire che svagati lo diventiamo un po’ anche noi.

Io mi metto tra i primi della fila, ché di solito son bella precisa, ma in giorni come questi, oh, finisco sempre per perdermi. Non del tutto, sia chiaro, ma a pezzi. Lascio per strada parti di parole, butto lì lettere a caso. Vocali soprattutto, le preferisco. I numeri invece no, quelli restano al loro posto, e menomale, dico io, col lavoro che faccio…

Da un po’ di tempo comunque mi sono messa l’anima in pace: in fondo il mondo è bello perché è vario e a questo mondo, be’, ci sono anch’io, che quando mi rilasso perdo pezzi.

In compenso c’è chi funziona al contrario e quando è svagato, di pezzi prende anche quelli degli altri.
Mi viene in mente la paziente di ieri, che è tornata in studio scusandosi per aver messo in borsa, al posto dei suoi occhiali da vista, un paio di occhiali usati dai dentisti per alcuni interventi. È entrata tutta mortificata. Non ridere, ha detto, ma l’altro giorno ero con la testa chissà dove e senza volere ho portato via questi, e li ha tirati fuori dalla borsa.
Ah, però.. ho pensato. E io che mi preoccupavo per qualche lettera persa per strada!

La signora comunque non è certo la sola. In questi giorni ho visto pazienti tenersi penne, riviste della sala d’attesa… e poi, be’, ho visto la Mau, che stamani, oltre ai suoi fogli, che già sono così tanti da riempirle la scrivania, voleva tenersi anche quelli per il corriere.

Un piglia piglia generale, insomma, che se non la facevamo finita, con tutti ‘sti pezzi sparsi qua e là, mi sa che finiva male.

Del resto si sa, ogni cosa va presa a piccole dosi. A quanto pare anche lo svago.
Be’, per fortuna la settimana è stata corta e noi siamo gia fuori.

A pensarci adesso, però, che il sole finalmente mi scalda e Lou Reed canta Wagon Wheel mentre l’auto scivola via leggera, penso, bene esser precisi, eh, ma com’è bello, di tanto in tanto, lasciarsi andare e perdersi un po’… Ché per esser precisi abbiamo un intero anno, mentre questo, be’, non è che all’inizio.

il Venerdì _ 03

Da che mondo è mondo il Natale è tempo di famiglia, di casa. Un tempo prezioso di raccoglimento e condivisione, che per qualcuno, ahimè, dura un po’ più degli altri. Dico ahimè perché io non sono tra quei fortunati.

Stamani il signor Carlo mi ha chiesto cosa ci facevo a lavoro. Invece di essere nei mari del Sud, ha detto. Bella domanda, caro mio. Be’, sono certa che prima o poi arriveranno anche quelli, i caldi mari del Sud, ma intanto quest’anno il mio Natale è durato il minimo sindacale. Tre giorni e via, una pedata in culo e di nuovo in ufficio. Del resto, cosa posso pretendere? Mica ho il marito in ferie o dei figli che mi trattengono a casa, io.

Chiariamoci, di persone care là fuori ne ho diverse anch’io, come diverse sono le occasioni di ferie durante l’anno, ma in certi periodi, si sa, esistono delle priorità. E così, durante le feste, noi trentenni smaritate e senza prole ci ritroviamo a godere delle famiglie degli altri.

La cosa tutto sommato non è poi così male. Se potessi scegliere me ne starei volentieri altrove, ovvio, ma anche qui in studio c’è di che divertirsi. Ci sono padri che accompagnano i figli. Mariti e mogli, che arrivano insieme sorridenti. Nipoti pestiferi inseguiti da nonni sfiancati. E poi ci sono loro, che non è un loro generico, ma un loro ‘loro’: quella madre e quella figlia che ieri pomeriggio si sono poggiate al banco della segreteria.

Per quella adolescente svogliata ho tirato fuori un preventivo pieno di otturazioni, che più che un preventivo alla fine sembrava un campo minato. Lei, lì ad osservarmi, lunghi capelli castani e un bel che cazzo vuole ‘sta stronza stampato sul viso. Anche niente, guarda, ma vaglielo un po’ a spiegare che se sono lì è solo per lavoro. Vabbe’…

Quando non mi guarda in cagnesco, ridacchia assieme allo spilungone che le sta di fianco, che la bacia e le sta così addosso, ma così addosso, che dico io, anche meno ragazzi va bene lo stesso. Mica per me, eh, quanto per quella povera donna che se ne sta lì accanto in silenzio, ma è chiaro che se potesse parlare avrebbe di che dire a entrambi.

Cosa ridi?
È l’unica cosa che riesce a buttar fuori. Il minimo, visto quello che ha appena scoperto di dover pagare per i denti della figlia. Ma la ragazza non fa una piega, si scosta giusto un attimo dallo spilungone e le lancia lì un bel Ma non mi rompere il cazzo!
Ah però… hai capito la sedicenne?!

Non faccio in tempo a riprendermi da questa sberla, che la donna si avvicina alla figlia e con un filo di voce le dice Stronza.
Ma la figlia continua a ridere, così la donna ribadisce. Stronza, dice e lo dice un altro paio di volte. Giusto per essere sicura che il messaggio arrivi a destinazione, ché con tutti ‘sti francesismi sia mai che la ragazza stenti a capire.

Il silenzio che segue è imbarazzante. Non tanto per loro, quanto per me, che nonostante gli sforzi non riesco proprio a cogliere il senso di famiglia, l’amore che vibra nell’aria, il Natale con cui tutti si riempiono volentieri la bocca, le lucine, i panettoni… ma del resto, cosa diavolo ne posso sapere io?

È che il mondo va avanti, ecco cosa, mentre io temo d’essere rimasta un po’ indietro, e per riuscire a coglierlo, l’amore dev’essere come quello dei vecchi tempi. Quello che si trovava nei piccoli gesti, nelle parole gentili. Quello del signore dell’altro giorno, ad esempio. Cappello da marinaio e barba ingiallita dal fumo. Aspetto un po’ rude, ma lo sguardo era di quelli buoni. Al suo fianco, la figlia di quarant’anni, che dopo essersi un po’ trascurata ha deciso di rimettersi in pista.
Il babbo le fa da supporto, ricorda gli appuntamenti, la spinge a far le cure. Gnamo, ormai che siamo qui, dice, oh falla! E in un gesto dolce e sicuro, le sistema la sciarpa che sta per cadere.
Che aiutante prezioso, mi son permessa di dirle. Ehhh! Ha sorriso lei. Lo stesso ha fatto lui: Che vuoi, ha detto poi, a me mi sembra l’abbia sempre dieci anni. Mi pare d’accompagnalla a scuola.

E l’ha detto in un modo, ma in un modo, che in un attimo l’aria intorno si è inzuppata di tenerezza. Ed io, be’, sarà stato il Natale, le lucine, forse il panettone, ma mi ci son tuffata proprio volentieri.
Splash e via, alla faccia del mondo che va avanti!

il Venerdì _ 02

Ancora quattro giorni e sarà Natale, finalmente.
Non l’attendevo così dai tempi in cui con mio fratello ci svegliavamo all’alba per correre in salotto e vedere cosa ci aveva portato Babbo Natale.

Adesso che sono grande non mi aspetto regali, ma soltanto che i telefoni al poliambulatorio smettano di squillare per un po’ e che il campanello faccia lo stesso.
Sogno una tregua, uno stop.

Ma fino ad allora c’è da darsi un gran da fare. Ci sono i conti da chiudere, le scadenze del fine anno. C’è da correre, insomma, ed io che di tempo per andare in palestra non ne ho, be’, ne approfitto e corro in ufficio, sebbene il più delle volte finisca per farlo sul posto, ché la superficie a Risana è quella che è.

Anche correre sul posto però è una gran fatica. Saltare da una cosa all’altra, il più delle volte da una persona all’altra.
Ieri ho saltato così tanto che a sera facevo fatica a reggermi in piedi. Così, quando la mia collega mi ha detto Mi chiedo cosa ci fai qui, in questo caos, tu che dovresti scrivere, trovare la tua dimensione…, ho temuto davvero di far cencio e cadere per terra. SBAM!

Invece sono rimasta in piedi, col desiderio di tornare d’un botto a quando avevo vent’anni. Non per far scelte diverse o rivedere i miei piani, sia chiaro, ma per sentirmi come quando il sabato sera, con gli amici, partivamo in banda per andare alla Flog. La musica rock nelle orecchie, un Negroni in mano e la mente sgombra delle sovrastrutture in cui mi sarei imbattuta negli anni a venire.

Chi se lo poteva immaginare, allora, che un giorno mi sarei ritrovata a dover spiegare a qualcuno il perché del mio semplice lavoro di segretaria?
Son cose che a pensarci, oh, mi si annebbia il cervello.
Tre, due, uno: buio.

Pensare che al buio, questa settimana, ci sono rimasta davvero.
È stato un attimo e i fari della mia auto sono morti, andati. Senza avvisare, ovviamente, ché se una cosa deve accadere, si sa, accade all’improvviso e sempre a ridosso delle feste.
Be’, per fortuna c’ha pensato Elio, che poi sarebbe mio babbo. Io non so come faccia, ma quando gli chiedo una cosa, oh, un attimo dopo l’ha già fatta. E infatti si è presentato in studio con le chiavi della mia auto in mano e un sorriso stampato in viso. Fatto, ha detto, e se n’è andato.

A lui non ho mai dovuto spiegare perché, invece di ambire a chissà che posizione, son qui a fare la segretaria. Magari avrebbe preferito diventassi medico o avvocato, ma conoscendolo sono certa che sia contento anche così, con una figlia segretaria di giorno e scribacchina di notte. L’importante è essere svegli, ecco cosa direbbe.

Se amo ciò che faccio lo devo anche a lui, instancabile lavoratore. Quindi lo ringrazio, per l’esempio e per aver alleggerito con due lampadine nuove la mia settimana.

A pensarci bene, ad alleggerirla sono stati in diversi. Allora sarà che a Natale siamo tutti più buoni, o che a forza di buttar giù cioccolati, lo zucchero m’ha dato alla testa, ma li voglio ringraziare tutti. A partire da Diano per l’olio nuovo. Grazie, si. A lui e anche a Giovanni e Gloria, per il caffè di metà mattina; alla Mau per gli sforzi condivisi e a Teresa, che finalmente ha imparato ad alzare la voce. Daje!
Grazie ad Antonietta, per avermi parlato del suo pizzicore al cuore nell’attesa che arrivi il primo nipotino, e a Piero, che ha chiamato stamani solo per fare gli auguri. A Vanna, Marcello e agli altri, per tutti i dolciumi… seguiranno chili in più e carie, ma chissene!

Un grazie lo devo anche alle mie amiche, che nonostante la mia stanchezza hanno comunque provato a portarmi fuori infra settimana; e a mio fratello, per aver condiviso con me il suo 30 all’esame di storia. Concludo con un grazie speciale, che non potrebbe non andare a Francesco e al suo <Ceniamo insieme stasera?>

Potrei ambire a qualcosa di meglio, certo, ma tutto sommato, anche così, la vita non è affatto male.

E ora, be’, non mi resta che augurarvi buon Natale!

il Venerdì _ 01

Il Natale è alle porte.
A ricordarmelo sono le luci colorate del piccolo albero in sala d’attesa, assieme alla playlist di Spotify, che da qualche giorno non fa altro che rimbalzare da Jingle Bell Rock a Last Christmas. Passando ovviamente da Let It snow! Let It snow! Let It snow!, che a forza di insistere, oh, è andata a finire che la neve è arrivata sul serio.

Per il resto, questo Natale mi sembra ancora un miraggio.
Lontano. A tratti irraggiungibile.
Mi piacerebbe poter dire di sentirlo nell’aria, nel profumo di pungitopo o in quello di un panettone appena uscito dal forno, ma ahimè, il più delle volte la realtà non è affatto all’altezza delle aspettative. E così, il Natale tocca coglierlo nel telefono che squilla senza tregua e nei miei passi svelti, ma così svelti, che se ci penso, quasi quasi l’anno prossimo mi candido come aiutante di Babbo Natale.

Ma ora basta lamentarsi! Ché il lamento, si sa, spegne il cervello, mentre invece il cervello andrebbe tenuto sempre ben acceso, soprattutto in periodi come questo, di temperature sotto zero e sistema immunitario che vacilla.

Tenersi su, ecco cosa bisogna fare.
Lo sa bene Eraldo, che l’altro giorno è passato allo studio per portarci una scatola di cioccolatini. Lo stesso ha fatto la Lia. Tieni chicca, ha detto, ché ne avete bisogno. E io lì, sorridente, a chiedermi, ma si vede così tanto? Chissà se il peso di questi giorni mi si legge più in viso o nei capelli arruffati?

È che la vita va combattuta.
Me l’ha detto l’altro giorno un paziente, e visto l’andazzo, be’, non posso che dargli ragione.
Una lotta continua, a tratti estenuante. Ma non c’è da temere, ché le forze per poterla affrontare ce le abbiamo. Ci sono state date, ha detto lui, e l’ha detto guardando con fiducia all’insù, nell’alto dei cieli, mentre il mio sguardo si andava a rifugiare tra i cioccolatini.

Che dire? Ognuno trova le forze dove crede.
E poco importa se le mie gambe non sono più scattanti come una volta, se gli addominali mi hanno detto addio e son partiti per un viaggio di sola andata. L’animo resiste agli scossoni e le spalle sono belle larghe. Anche se, a forza di combattere a suon di cioccolata, ho come il sospetto che presto il mio sedere farà la stessa fine delle spalle…

Ma del resto, cosa ci posso fare?
La dobbiamo combattere o no ‘sta vita!?

Buoni propositi

Cinque giorni, sei ore e 37 minuti.
Sono ben cinque giorni, sei ore e 37 minuti che Eloisa non butta giù un goccio d’alcol.
Mentre se ne sta distesa sul letto, i secondi continuano a scorrere e tra qualche secondo saranno cinque giorni, sei ore e 38 minuti. Poi passeranno altri secondi, i minuti aumenteranno e lo stesso accadrà alle ore e ai giorni. Sempre che Eloisa tenga fede al suo proposito.

Sonia smetterà di darla sempre vinta a sua figlia. È questo che si è ripromessa di fare, che mica vuole una figlia viziata, lei. Allora martedì sera,all’aperitivo, se n’è venuta fuori con questa storia:
– Ragazze da domani la voglio smettere. Sì, la voglio smettere di darla sempre vinta a quella peste di mia figlia – e mentre lo diceva agitava in aria il bicchiere, lasciando cadere qua e là gocce di spritz.
– Che storia è questa? – le ha chiesto Marina.
– Ma quale storia e storia? – l’ha interrotta Sonia – Questo è un proposito serio, ne va del futuro di mia figlia e io, beh, voglio tener fede a questo proposito –
– Se è per questo anch’io ne ho uno – ha detto allora Marina.
– Di cosa? –
– Di proposito. Bisogna sempre averne uno, no? E il mio è di non interrompere più Paolo quando parla e di non dirgli di stare zitto quando se ne viene fuori con le sue stronzate sul calcio –
– Ma questi non sono due?- ha chiesto Eloisa.
– In effetti… Che dite,dovrei sceglierne uno? –
Dopo il secondo mojito la scelta di Marina era ricaduta sul secondo, il più difficile tra i due, perché lei il calcio non lo sopporta proprio. Lo considera,anzi, una sciagura, che peggio in vita sua non le poteva capitare. Se mai il suo matrimonio dovesse finire, Marina non ha alcun dubbio,sarà colpa di un fallo in aria non concesso e dell’ennesimo“Arbitro cornuto!”.Riuscire a stare zitta davanti agli sproloqui di Paolo sarà un’impresa, ma lei ci vuole comunque provare. Per amore si fa questo ed altro.
Eloisa invece l’amore l’ha dimenticato da un bel po’. Forse è per questo che prima di martedì non aveva alcun proposito. La storia con Sandro è finita da quasi un anno, e nel peggiore dei modi. Lui con un’altra, lei a pezzi. Una catastrofe. Per rimetterli insieme, quei pezzi, le ci erano voluti dei mesi. A suo modo era stato un proposito anche quello, rimettersi insieme. Uno di quei propositi che neanche te ne accorgi, barcolli, fai un passo avanti e due indietro, ma alla fine li porti a termine e ti ritrovi intera.

– E te Isa? – le ha chiesto Marina – Te che proposito hai? –
Eloisa era rimasta in silenzio. Un tempo le era saltato in mente di andare all’anagrafe e cambiare nome, ché a lei quel nome lì, Eloisa, pareva un po’ altisonante. Nessuno l’aveva mai chiamata così a parte sua mamma e forse se aveva sempre la testa tra le nuvole era anche a causa di quel nome. Isa le sembrava decisamente migliore. Essenziale, fresco, proprio come il gin tonic che stava buttando giù quando la domanda di Marina le aveva riportato alla mente quel periodo. Un sorso e un altro ancora, per poi ricordarsi che a fermarla, allora, era stato il dispiacere, quello che avrebbe arrecato a sua mamma quando le avrebbe detto che si era sbarazzata del nome che lei amava tanto. E così, addio proposito.
Da allora non se ne era posti altri e, anche martedì,aveva fatto scena muta.
– Quindi? – aveva chiesto Sonia.
– Quindi niente –
Era finita lì, avevano cambiato discorso. Ma Eloisa quel pensiero se l’era portato a casa e per l’intera notte non s’era data pace. Com’era possibile che lei, a trentaquattro anni, non avesse un proposito a cui mantener fede?Cristo santo! Come diavolo era possibile?

L’indomani si era alzata con gli occhi gonfi di sonno. Anche la pancia non scherzava, gonfia pure quella, sebbene ultimamente non mangiasse un granché. Beveva,quello sì. Del resto il lavoro la stava consumando e a fine giornata non c’era niente di meglio che dei buoni amici e un buon gin tonic. Solo che poi i gin tonic diventavano due, tre… E ora, quei gin tonic erano tutti lì, sulla sua pancia. Vi poggiò sopra le mani, davanti allo specchio, proprio come fanno le donne quando aspettano un bambino, che si guardano e ridono. Prima un lato, poi l’altro, poi ridono di nuovo. Mentre Eloisa, nella sua pancia, non ci trovava proprio niente da ridere.
Così, mentre si guardava allo specchio, le passò in mente che anche lei aveva il sacrosanto diritto d’avere un proposito. Niente a che vedere con un marito o dei figli. Al diavolo il marito e i figli! Eloisa voleva un proposito tutto suo, di quelli buoni, buoni sul serio, a cui tener fede solo per se stessa, che se c’era qualcuno per cui valeva davvero la pena darsi da fare, quella era senz’altro lei. Allora s’era detta: “Niente più alcol, bella mia”. Si era guardata allo specchio, prima un lato, poi l’altro, e aveva accennato un sorriso. “Niente più alcol”. E così era stato, negli ultimi cinque giorni, sei ore e 37 minuti.

Sono le dieci di sera quando il portone di casa sbatte. Eloisa se ne sta sul letto,sonnecchia. Un’altra giornata d’inferno a lavoro. Dopo la doccia s’è buttata sulle coperte ed è rimasta lì fino a quando il portone non ha sbattuto, costringendola ad aprire gli occhi. Alla TV c’è Russell Crowe, che più passano gli anni più si fa bello. Eloisa lo guarda in silenzio. Ha sete, ma mica d’acqua. Le ci vorrebbe un gin tonic. Solo che lei ha un proposito e ce l’ha da cinque giorni, sei ore e ormai 43 minuti. Non può venir meno al suo impegno, non adesso, non lo farebbe neppure se Russell Crowe le piombasse in camera in carne ed ossa con un bel gin tonic. O forse sì?
Smette di pensarci quando il telefono prende a squillare. È Nino. Lei non risponde. Sa già cosa vuole dirle: usciamo? Infatti un attimo dopo glielo scrive in un messaggio.<Usciamo?C’è anche Marina>.
Eloisa si alza dal letto, srotola l’asciugamano intorno alla testa e lascia che i capelli le cadano sulle spalle. Sono ancora umidi, freschi, come un sorso di gin tonic, quando prima di farselo scendere in gola se lo tiene un po’sulle labbra. No, non è il caso di uscire. Non stasera. Prende il telefono e avverte Nino.<Magari domani, oggi faccio passo>.

Intanto nel corridoio si sentono dei rumori. Porte che si aprono, scatoloni che cambiano di posto. Dev’essere una di quelle sere in cui Marisa, la padrona di casa, non riesce a dormire e si mette a fare ordine. Quella donna non è mica tutta rifinita, ma a Eloisa poco importa: per quanto paga d’affitto avere a che fare con i suoi sbalzi d’umore è un buon compromesso. Si chiude a chiave nei suoi venti metri quadri assieme a un libro e a Russell Crowe, e si rimette a letto. Butta giù qualche riga, mentre Russell, muto, continua a muoversi sullo schermo. Qualche riga ancora e poi di nuovo lui. Quel libro è davvero una noia infernale, tanto che buttar giù righe diventa sempre più difficile. Poi a un tratto suona il campanello. Eloisa sobbalza, mentre sente Marisa affrettarsi per aprire il portone: – È lui, Mauro, è senz’altro lui. È arrivato –
I passi svogliati dell’anziano marito seguono la donna nel corridoio.
– Piano – dice lui –o finirai per svegliare tutti! –
Ma lei niente, apre il portone e si lancia in un grido: – Oh Gin, che bello averti qua! Benarrivato Gin. Com’è andato il viaggio, eh Gin, com’è andato?-

Gin? Cosa diavolo…? Eloisa è incredula. Forse avrebbe fatto meglio a dare ascolto a Nino e a diminuire l’alcol un po’alla volta. – Un bicchiere ogni tanto che male vuoi che faccia? – aveva detto lui. Ma lei s’era intestardita e aveva detto basta tutto d’un botto. Il gin le sarebbe mancato, questo lo sapeva, ma non immaginava certo che un proposito potesse arrivare addirittura a darle le allucinazioni. D’un tratto le voci nel corridoio svaniscono, Eloisa si alza per aprire la finestra. Aria fresca, ecco di cosa ha bisogno, ché la mente quando ci si mette può giocare davvero dei brutti scherzi. Mentre ride di se stessa si lascia accarezzare dall’aria fresca della sera. Tutt’intorno è un gran silenzio, la città riesce anche a fermarsi di tanto in tanto. Non crede alle sue orecchie. Non ci crede neppure quando dalla stanza accanto, la voce della signora Marisa torna a farsi sentire. – Gin caro – dice la donna – sarai stanco,arrivare fin qua dal Giappone. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza –
Forse l’aria non è abbastanza fresca. Eloisa scuote la testa per riaversi. Ma poi strizza gli occhi miopi nel buio e vede un ragazzo di spalle davanti ai due anziani. “Gin? Allora esiste davvero!” pensa. Non sa se essere felice o meno,certo però non vede l’ora di raccontare a Nino che dopo cinque giorni, sei ore e 53 minuti senza buttar giù un goccio d’alcol, si ritrova un Gin come vicino di stanza. Davvero un bello scherzo.
Sente dei passi nel corridoio. Corre alla porta, ci sbatte contro e si attacca allo spioncino. Un ragazzo le passa di fronte. Eccolo Gin. Ed ecco Marisa,tutta sorridente, che scivola sulle sue pattine fino a fermarsi proprio davanti alla sua stanza.
– È questa – dice la donna, mentre apre la porta di fronte – mettiti pure comodo, Gin, ci vediamo domani –
Il ragazzo fa un leggero inchino.
– Grazie. A domani – dice lui, in un italiano perfetto che stona con i suoi lineamenti orientali.
– Ah, questo – aggiunge lei prima di dileguarsi – ho pensato potesse farti piacere, visto che… beh… – e porge qualcosa al giovane.
Marisa chiude la porta e nel corridoio torna il silenzio. Gin resta sulla soglia, fermo, con in mano un pacco di riso che osserva interdetto. Marisa stavolta ha davvero superato se stessa. Un pacco di riso! Eloisa non crede ai suoi occhi. Vorrebbe tanto essere con Nino e Marina per riderne insieme. Invece è lì da sola, ma ride comunque, oltre la porta. Ride così forte che Gin alza la testa e in un passo si avvicina allo spioncino. Merda. Eloisa indietreggia. Si porta una mano alla bocca, soffoca il riso. Ma lui resta lì, si aggiusta il colletto della camicia, senza muoversi d’un passo. Allora lei avanza di nuovo, furtiva, e torna ad osservarlo.

Ha i capelli annodati in un codino sopra la testa e dei bei baffi. Occhi scuri che emergono da due fessure sopra gli zigomi e che son lì a guardarla senza vederla.Eloisa ci si perde. Si perde in quel volto sconosciuto, fresco,esattamente come un sorso di gin tonic che scorre in gola. Non ha mai provato un gin giapponese. Adire il vero non ne ha mai nemmeno sentito parlare. Chissà se lo fanno, il gin, in Giappone? Se lo chiede mentre Gin continua a fissarla immobile. Lei fa lo stesso. E più lo osserva, più sente aumentare la sua sete. Se avesse con sé un gin tonic lo butterebbe giù tutto d’un sorso, ma da cinque giorni, sei ore e 57 minuti ha un proposito a cui deve tener fede. Da stasera però ha anche un nuovo vicino e ora che se lo ritrova davanti, beh, non è niente male, tanto che butterebbe giù un sorso anche di lui.
Gin sorride, sembra quasi le abbia letto nel pensiero. Magari anche lui ha voglia di farsi un goccio. Potrebbero farselo insieme. Ma si allontana e raggiunge la sua stanza. Prima di chiudere, però, guarda un’ultima volta verso di lei, oltre lo spioncino, e alza la mano in segno di saluto, per poi svanire dietro la porta.

Eloisa resta immobile, a bocca asciutta. Adesso ha davvero una sete pazzesca. Sono cinque giorni, sette ore e 2 minuti che non butta giù un goccio d’alcol. Le resta comunque l’acqua, certo, ma vuoi mettere con un buon gin tonic a fine giornata. Indietreggia fino a ributtarsi sul letto. Russell Crowe è ancora in TV, muto come prima, ma tanto a uno così mica servono parole. Lo guarda, mentre intanto s’infila gli shorts, poi la canottiera. Lo guarda, sì,ma non lo vede. La sua mente infatti è oltre la porta, da quel Gin giapponese che se ne sta nella stanza di fronte alla sua.
Chissà se è più un Martin Miller o un Plymouth? I suoi occhi scuri danno l’idea di un sapore deciso, speziato. Eloisa prende il cellulare. Nessuna notizia di Nino. Neppure Marina si è fatta sentire. Saranno al pub a raccontarsi le solite storie, a buttar giù sorsi. Maledetti loro, che la sua gola è sempre più secca ed ha così voglia di un gin tonic che teme d’essere sul punto di buttare tutto all’aria. Invece no, stavolta è davvero decisa a tener duro, così d’un tratto si alza dal letto e spegne la TV. Nella dispensa tra le confezioni di pasta si nasconde un pacco di riso; lo prende e si fionda sulla porta. Quella che sta per fare è una cazzata, una cazzata enorme, Eloisa lo sa bene, ma sono cinque giorni, sette ore e 8 minuti che ha una tale sete che…“Al diavolo!”e si fionda nel corridoio.

La stanza di Gin è esattamente di fronte a lei. Eloisa fa un profondo respiro, si da un’aggiustata ai capelli e poi bussa, senza pensarci oltre. La portasi apre lentamente e dalla penombra affiora il volto del ragazzo.
– Ciao – dice lei. Lui resta immobile, la guarda in silenzio. Eloisa rimpiange di non essere andata con gli altri. Ora sì che le ci vorrebbe un gin tonic, con del vero gin e anche bello forte.
– Quello? – chiede lui indicando il pacco di riso.
– Ecco– dice lei – ho pensato potesse farti piacere –
Lo dice facendo il verso alla signora Marisa, ma lui resta serio. Osserva quel riso in silenzio, poi a un tratto torna a guardarla negli occhi. Stavolta però sorride e lo fa in un modo che a Eloisa torna in mente il gin tonic bevuto a Torino qualche mese prima. Di quella sera ricorda tutto, la piazza, il tavolino a cui sedeva, ricorda l’esatto sapore del gin e, mentre ricorda, i secondi continuano a passare, tanto che ormai sono cinque giorni, sette ore e 9 minuti che non butta giù un goccio d’alcol.

Difronte a lei c’è Gin, che non è mica un gin come gli altri, di quelli da bar a cui è abituata. Questo Gin è diverso. Eloisa lo pensa sul serio. Potrebbe infatti avere a che fare con lui senza per questo dire addio al suo proposito. Mica male, che stavolta è intenzionata ad andare fino in fondo.

Così sorride e allunga una mano: – Piacere, Isa –
– Gin –

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