il Venerdì _ 13

Questa settimana son stata assalita da un dubbio. Niente di tragico, per carità, ché in fondo, si sa, aver dubbi è sintomo d’intelligenza. Solo che a me, il fatto che ci sia qualcuno in studio che a malapena mi da il buongiorno, oh, m’ha fatto venire un dubbio mica da poco; un dubbio che suona pressappoco così: ma io, sarò forse diventata parte dell’arredamento?

In effetti, se penso alle ore che ogni giorno trascorro qua dentro, il dubbio d’esser diventata come una sedia o che so, un attacapanni, non è affatto campato in aria. Ché a volte immagino che tra i tanti pazienti che si aspettano di trovare le sedie in sala d’attesa o gli strumenti del dentista negli studi, ci sia anche qualcuno che si aspetta di trovare me dietro al banco della segreteria. Esattamente come quelle sedie e quegli strumenti.

La cosa, ammetto, non mi dispiace; mi da anzi un certo piacere, soprattutto se i pazienti son come Riccardo, con cui scambio parole che mi riportano in luoghi lontani, o come Giancarlo, il quale, anche se è stato un’ora buona sotto le grinfie del dentista, riesce comunque ad accorgersi di chi gli sta intorno. Della Mau, ad esempio, o della Teresa. Giancarlo ci vede tutte, vede anche me, e mi regala sorrisi e divagazioni creative.

Questo, penso, dovrebbe bastarmi, ma forse, per aprire certi occhi, potrei iniziare ad indossare vestiti color fluo o perché no, dare un taglio netto ai miei capelli. Anche se, temo che neanche questo funzionerà, ché al mondo, si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e, ahimè, ho la sensazione che con la vista funzioni un po’ allo stesso modo.

La Mau, l’altra mattina, m’ha offerto un’alternativa al taglio netto, che poi, be’, gira e rigira è la stessa di sempre: buttar giù un po’ di zuccheri, ché gli zuccheri, si sa, tirano su e magari, oh, ci fanno anche lievitare un po’, così che certi sguardi possano tornano ad accorgersi di noi. ‘Noi‘, già, perché ho come l’impressione di non esser la sola, qua dentro, ad avere il dubbio d’esser diventata una sedia.

Be’, per fortuna, gli zuccheri non ci mancano. E così, andiamo avanti, ché domani è un altro giorno e chissà, magari, a forza di zuccheri, va davvero a finire che da sedie ci facciam divanetti e chi adesso non ci vede, oh, torna pure a vederci.

il Venerdì _ 12

Se potessi dare un titolo a questa settimana, sarebbe senz’altro l’ombelico del mondo. Che di per sé, dico io, sarebbe un titolo niente male, pieno di punti di fuga dai risvolti conturbanti, a tratti anche un po’ esotici.

Invece no, ché ahimè, gli ombelichi a cui mi riferisco non hanno alcun risvolto se non in sé stessi. Vivono in questo mondo, esattamente come tutti gli altri, e come tutti gli altri, parlano, si muovono… ma gira e rigira, oh, restan sempre lì, ostinatamente ancorati a ciò che sono.

Aver a che fare con gente così è a dir poco avvilente, ché questi, oh, non guardano in faccia nessuno. Passano avanti a chi è in attesa, decidon loro per te e mentre ti guardano dall’alto, son pure capaci d’alzare la voce. Un pacchettino niente male, insomma, che credetemi, è di una tristezza infinita. Di quella tristezza che ti schiaccia lentamente in basso fino a quando non tocchi terra e hai come l’impressione che non ti rialzerai più. Ché se nel mondo c’è gente così, vien da chiedersi, cosa mi rialzo a fare?

Invece, poi, ti dici che se in questa vita c’è un motivo per rialzarsi, oh, son proprio quelle persone lì, che si credono l’ombelico del mondo quando invece non lo sono affatto. Ché questo mondo, che oggi ci chiede aiuto come non mai, di tutto ha bisogno fuorché di ombelichi.

Allora via, in piedi, a tentar d’aggiustare il tiro, ché se fino ad oggi non han capito che in questo mondo esistono anche gli altri, be’, magari non dargliela vinta potrebbe aiutarli ad aprire gli occhi e chissà, magari a scoprire altri volti, altre menti. Quel che è certo, è che farlo aiuterà noi. A sentirci utili, ad esempio, e a tratti anche persone migliori perché non indifferenti.

Il mio è un lavoro in cui non è che si possa far tanto per questo mondo, ma ogni giorno in più che passo qua dentro mi da la conferma che qualcosa può esser fatto, e quindi, dico io, facciamolo. No?

Mi piace il fatto che chi lavora al mio fianco la pensi un po’ così, ché se c’è una cosa che ho capito in questi anni, è proprio che l’unione fa la forza. Anche in queste cose. Ché esser piccoli, o pochi, non significa necessariamente non poter fare la differenza.

A dimostrarcelo, oggi, è Greta, che a soli sedici anni, è riuscita a smuovere le coscienze di giovani, donne e uomini di tutto il mondo, che mi auguro, una volta abbandonata la piazza, restino fedeli a ciò per cui hanno manifestato.

Io stamani ero a lavoro, ma col cuore, ammetto d’esser stata in piazza con loro, ché se c’è una cosa in cui credo è che cambiare si può, ma farlo richiede volontà, coerenza e soprattutto coraggio.

Ciascuno di noi, a modo suo, può far la differenza, a partire dai piccoli gesti per arrivare ai grandi. Quel che m’è parso di capire, però, è che per farlo davvero non si debba mai restare indifferenti, ché se vogliamo un mondo migliore, fatto di persone migliori, oh, c’è da impegnarsi. Altrimenti, be’, guai a chi si lamenta!

Il vero potere appartiene alla gente.
Greta Thunberg


Copenaghen, 12 marzo

A tratti ho come l’impressione che in questa città ci siano più bici che esseri umani, ché in giro, oh, mi par di non vedere altro. Sono ovunque: buttate a terra dal vento, legate a qualche palo o in strada, dove sin dalle prime ore del mattino, van qua e là come uno sciame d’api.

Più li guardo pedalare, più penso che ‘sti danesi, oh, devono avere due gambe così ed io, lo ammetto, un po’ li invidio. Anche se in questi giorni, be’, le gambe l’ho messe in moto anch’io, macinando passi per le strade di questa città, che sebbene si mostri sempre piuttosto distesa non dorme mica mai.

Da fuori, i locali e i negozi sembrano chiusi, ma affacciandosi si scoprono donne e uomini all’opera: impiegati, artigiani, professionisti, commessi. Lo stesso accade nei caffè, dove c’è chi parla, certo, ma anche chi se ne sta in silenzio al pc o al tablet, mentre intanto butta giù caffe, tè e brioches piene di burro che vanno in frantumi al primo morso. Crash!

Stamani, tra briciole e tazzine, mi ci son buttata anch’io, ché il cielo, fuori, non prometteva niente di buono. E così, libro alla mano e via, anch’io una di loro.

Ammetto che farlo è stato un piacere, ché quassù, oh, la gente si rivolge a me in danese. Il che, ovviamente, equivale a non capirsi, ma per lo meno ho trovato un posto dove non mi scambiano più per una francese.

È che qui la gente è avanti, c’è poco da fare. Lo si vede dalle piccole cose, tipo che nessuno alza mai la voce o che l’acqua, nei caffè, è a disposizione di tutti gratuitamente; ognuno può prendere un bicchiere e servirsi. E se poi ti scappa la pipì quando sei già in giro, be’, non c’è da preoccuparsi, ché i bagni pubblici, qua, sono un po’ ovunque e udite udite, la gente li lascia puliti senza bisogno che qualche cartello ricordi loro che quello che hanno in mano non è un idrante, ad esempio, o che nel wc va gettata solo la carta igienica. Roba che a pensarci, oh, in Italia sembra fantascienza, mentre qui è semplicemente come vanno le cose tutti i giorni.

In effetti, a me, questi non sembrano affatto alieni. Li trovo anzi piuttosto umani: gentili, sorridono. Sarà questione di fiducia. Ché se c’è una cosa che ho notato è che quassù, di fiducia, ne hanno da vendere, soprattutto nel futuro, con tutte le carrozzine e i passeggini, che si vedono in giro. Son così tanti, che tra quelli e le bici potrei davvero passare la giornata a contare ruote.

Ma ahimè, temo che il tempo a mia disposizione non sia abbastanza. Quel poco che mi resta lo butto in una bella fetta di torta, che anche se non sarà in grado di far leva sulla mia fiducia, son certa accrescerà il buonumore, assieme alle cosce. E allora, be’, mi vien da pensare che sebbene di passi da compiere ne abbia ancora tanti, tutto sommato son sulla buona strada, ché per andare in bici servono anche quelle. No?

Copenaghen, 11 marzo

Tenere gli occhi aperti, stamani, è stata una vera impresa, ché in cielo splendeva un sole bellissimo.

La città s’è svegliata di buonumore ed io, be’, non ho potuto che fare lo stesso. Così, un po’ alla cieca, mi son data in pasto alle sue vie, che saranno anche silenziose, ma sanno il fatto loro e a tirarti a sé, oh, ci mettono un attimo. Per lo meno con me, che senza accorgermene, in un baleno mi son ritrovata a Christianshavn, dove isole verdi spuntano fuori dalle fredde acque del Baltico.

Le facciate delle case, là, son ricoperte di mattoni, altre di legno, ed hanno grandi vetrate attraverso cui chiunque può entrar dentro. Persino io, che son l’ultima arrivata, mi ritrovo ad osservare una ragazza che lava i piatti. Vedo i suoi quadri, il suo divano. Vedo anche la signora al piano di sopra che annaffia le piante. Ma a loro, la cosa, non sembra dar fastidio. Anzi, sorridono, per poi tornare a darsi da fare.

Sarà che oggi c’è il sole, ma da queste parti mi sembran tutti così sereni, rilassati. Lo son soprattutto a Christiania, la cosiddetta Città Libera, dove dagli anni settanta a farla da padrona son la condivisione e la creatività. Be’, assieme all’erba, il cui odore si diffonde, intenso, sin dalle prime ore del mattino.

Del resto, a Copenaghen, la natura si trova un po’ da per tutto. Per le vie tortuose di Christiania, così come nel cielo ampio che si fonde col mare o tra gli alberi, i cui rami si allungano fino a bussare alle porte delle case.

È un legame strettissimo, quello con la natura, che finisce persino nel piatto, dove i prodotti son quelli del territorio, saporiti e colorati, ed è un tripudio di erbe spontanee. Oh, i danesi riescono davvero a metterle ovunque, tanto che da ieri non faccio altro che chiedermi, non è che a forza di buttarle giù, va a finire che divento un po’ un’erba spontanea anch’io?

Copenaghen, 10 marzo

Vorrei sapere cos’è che mi ha fatto alzare alle tre, stanotte, per mettermi in auto e raggiungere Bologna.

C’era un tale buio, un tale silenzio, ché a quell’ora della notte, si sa, la gente se ne sta a letto, mica alla guida come me. Che poi, dico io, fosse finita lì. Invece no, ché a quanto pare il rosso di Bologna non mi bastava e così mi son spinta fin quassù, dove il cielo è tinto di bianco ma di colori, intorno, se ne vedono a perdita d’occhio. Blu, rosso, verde… finirci dentro è un attimo, ché oggi, oh, il vento non si da tregua e ti sbatte da una parte all’altra, da un colore all’altro. E così, anche senza volere, un istante sei blu, quello dopo rosso, poi d’improvviso verde.

L’acqua invece è uno specchio quieto, ma anche lei, zitta zitta, non smette mai di muoversi. È così tanta, che ovunque vada me la ritrovo tra i piedi. E come se quella non bastasse, a un tratto ne vien giù un po’ anche dal cielo. Ma qualche minuto più tardi ha già smesso, ché c’è da far spazio al sole.

Allora, sai cosa, io mi tolgo il cappello, mentre intanto penso che son qui solo da poche ore ma una cosa l’ho già capita ed è che questa città è decisamente donna: golosa di dolci, vibrante di colori e dall’umore ballerino.

Ora si che capisco cos’è che m’ha buttato giù dal letto stanotte.

il Venerdì _ 11

Avrei dovuto capirlo sin da subito che questa sarebbe stata una settimana particolare, di cielo grigio, ma dal sapore decisamente dolce, non fosse altro per i cenci e le frittelle che in questi giorni han girato per i corridoi, ché mentre noi eravamo alle prese col lavoro, fuori accadevano un sacco di cose, persino il Carnevale.

Per fortuna, a portarne un po’ anche a noi, d’allegria e di colore, ci han pensato i pazienti. Soprattutto quelli dal metro in giù, pronti come non mai ad aprir bocca davanti al dentista per poi mettersi la maschera e via, di corsa su un carro.

Anche i più grandi, però, a modo loro si son dati da fare. Mi vengono in mente Brunetta e Ascanio, due pazienti in là con l’età, venuti per la prima volta in studio lunedì. Ma che bella accoglienza, han detto, come siete bravi e la simpatia, ecco, quella la s’è trovata da subito. E così, hanno offerto il caffè a tutti. Che dico io, non saran certo coriandoli e maschere, ma anche le parole, quando son buone e spontanee, san regalare sorrisi e buonumore. Tanto che alla fine, oh, il nostro Carnevale ce l’abbiamo avuto pure noi.

A dir la verità, noi, il Carnevale ce l’abbiamo un po’ tutto l’anno. Con la varietà di persone che vediamo passare in studio, infatti, non potrebbe essere altrimenti. E anche la quantità ci mette del suo, ché in alcuni momenti, oh, par d’essere a Rio, travolti dalla folla e dalle emozioni.

Già, perché quelle non mancano mai. Soprattutto se lavori in una squadra fatta per l’80% di donne. Che di per sé, dico io, già questo è un gran bel Carnevale.

C’è di positivo che la noia, qua dentro, nessuno sa cosa sia, ché quando si è donna non esiste un giorno uguale all’altro. Figurarsi quando le donne diventano cinque, otto, tredici… Sbalza l’umore, volano i pensieri e non si fa altro che correre, chi da una parte all’altra e chi sul posto, da ferma, ché mica si può esser tutte uguali e così ognuna corre a modo suo. Quel che ne vien fuori è un continuo dimenarsi di gambe, parole e pensieri, tanto che a volte mi chiedo, chissà chi ci vede da fuori cosa pensa di noi?

Be’, spero solo che questi occhi riescano a cogliere almeno in parte la vitalità che anima le nostre esistenze, che per quanto siano sonfusionate e arruffate, oh, non si riposano mai. Dedite a un confronto continuo, al sostegno di chi ci sta accanto, alle sue fatiche, ai suoi sogni e anche ai nostri. E se poi qualcuno ci mette i bastoni tra le ruote, be’, con una risata e magari un dolcino ci tiriamo su. Ché in questa vita, si sa, i problemi sono altri e le cose van prese alla leggera.

Saperlo fare, intendo sul serio, non è da tutti. Io, ‘sta cosa, credo d’averla imparata da mia mamma, che per carità, non sarà certo impeccabile, ma a me, in questi anni, ha saputo insegnare tanto, lasciandomi la libertà di tentare, prender qualche travata e tornare a rialzarmi. E anche se negli ultimi tempi ci vediamo poco, ché io son sempre chissà dove, le sue parole continuano a farmi da guida. Un po’ come quelle che m’ha scritto per sms l’altro giorno: Forse dovrei fare la mamma giudiziosa e dirti di risparmiare. Invece sai che ti dico? Ma vai e divertiti!

Che per i più, lo so, queste parole non significano niente, ma per quanto semplici siano, a me sono arrivate proprio nel momento giusto. Ché a volte, dico io, più che di un abbraccio, in questa vita abbiam bisogno di una spinta verso ciò che ci rende felici. Capirlo non è affatto facile. Immagino che saperla dare, quella spinta, lo sia ancora meno, quindi grazie ma’, a te e a tutte le donne della mia vita, che spingono e si fanno spingere, verso l’infinito e oltre.

il Venerdì _ 10

Passata l’euforia del rientro, questa settimana son tornata alla realtà. E stavolta intendo sul serio, mica per dire. Dopo i racconti spassionati e gli abbracci stretti, infatti, la vita è tornata davvero ad essere quella di sempre, con inseguimenti nei corridoi e raccolta di “Ne parliamo dopo”. Altro che spiagge paradisiache e mare cristallino. Un pacca sulle spalle e via, si riparte.

La pacca, a dire il vero, ho come l’impressione d’averla presa sulle chiappe, ché da queste parti, oh, non si fa altro che correre. Tanto che a tratti mi tornano alla mente gli abitanti dell’Isola di Santiago. Atletici, instancabili e con dei culi ma dei culi, che se ci ripenso, mi dico, vuoi vedere che con tutta ‘sta corsa alla fine vien fuori anche a me un culo così.

Lo ammetto, un po’ lo spero, ché la speranza, si sa, è l’ultima a morire. E così, mentre corro, mi capita anche di sperare. In un culo migliore e in un sacco di altre cose decisamente più edificanti. Come ad esempio che il nostro correre quotidiano prima o poi ci porti da qualche parte. Ché ok il non poter aver tutto sotto controllo, ma ogni tanto, dico io, sarebbe anche il caso di saperlo dove si sta andando. Non fosse altro per il fiato e le gambe, che col passare degli anni, di tutta questa corsa per chissà dove, iniziano un po’ a risentirne.

Di tanto in tanto, allora, me lo chiedo: Si può sapere dov’è che stiamo andando esattamente?

E quando lo faccio, be’, lo faccio ad alta voce, ché la risposta non può mica esser solo la mia.

A quanto pare, però, la mia voce è troppo bassa o forse si muove su frequenze diverse da quelle a cui mi rivolgo. Chi lo sa?
Quel che è certo è che quella domanda cade spesso nel vuoto, in un toc silenzioso che ricorda quello di un cellulare che tocca terra. Che le prime volte ti disperi, ma dopo un po’ che capita, non ci fai più manco caso. Lo raccatti e via, in attesa della prossima inevitabile caduta.
Toc.

Chissà, forse la verità è che in questa vita ognuno corre da solo e un po’ dove gli pare. Anche se ‘sta cosa, a me, non piace mica poi tanto. Be’, per fortuna ci pensano i cenci dell’Anna a tirarmi su. Per Berlingaccio s’è data un gran da fare e figuriamoci se la Mau non ce ne avrebbe portati un po’ anche a noi, ché la parentesi delle arance, mi sa, non ha fatto in tempo ad aprirsi che si è già conclusa. E così, con quel dolce sapore in bocca e la voce di Cesária Évora che mi gira in testa, in questo grigio inizio di marzo io continuo a sperare. Prima o poi quella risposta arriverà; e chissà, magari anche un bel culo capoverdiano.

Sodade _ Cesária Évora

il Venerdì _ 09

Le cose belle, si sa, non durano in eterno. Un po’ come le ferie, che le aspetti per giorni, settimane, e poi, quando finalmente arrivano, è un attimo che se ne volan via.

E così, adesso, dei mari del sud non resta che un caldo ricordo che sa di sale, cachupa e gin tonic. D’un tratto, infatti, lunedì mi son ritrovata di nuovo in ufficio. Sbam! Scaraventata in quella che è la vita di sempre, fatta di mal di denti, capsule saltate e preventivi.

Il sole, fuori, ha continuato a splendere come se nulla fosse, solo che io, le ore, ho ripreso a passarle dentro e così, il mio colore sta lentamente tornando ad essere quello di sempre: un bianco che un giorno vira al rosa e quello dopo al grigio, in una scala cromatica che chissà come, a volte riesce addirittura a spingersi fino al verde.

Ma suvvia non ci lamentiamo, ché son tornata da appena una settimana e poi, va detto, il rientro poteva andare decisamente peggio, anche se in questi giorni non mi son fatta certo mancare niente. Ho avuto a che fare col paziente sarcastico, con quello acido e col marpione. C’è poi chi ha smattato dal dolore e chi, invece, mi ha espresso il suo sostegno, ché qui, ha detto, avete un bel da fare, eh.

Già! Ma devo ammettere che per quanto sia stato faticoso, è stato anche bello, dopo tanto, tornare a respirare aria di casa. E poco importa se questa casa odora di studio dentistico. È stato comunque bello, si, ché gli abbracci che mi danno qui, non me li danno mica da tante parti.

Le cose, insomma, son rimaste pressappoco le stesse di prima che partissi. Dico pressappoco perché al mio rientro ho trovato i timbri da tutt’altra parte, qualche forza operativa in più e la Mau con una manciata d’arance al posto delle solite brioches. Ché non posso mica continuare a buttar giù dolci su dolci, ha detto.

E poi, be’, ho trovato un bigliettino, messo vicino al computer a ricordarmi quanto sia importante, in questo marasma, starsi accanto tutti i giorni e riuscire così a farsi un tutt’uno.

“Un amico saggio sa evitarci molte pene”.
Baltasar Gracian

Cabo Verde, 11 febbraio

A volte mi chiedo da quanto tempo è che siamo in viaggio, io e lui, ché da quando abbiam messo gli zaini in spalla son passati appena dieci giorni, ma a me, oh, pare un’eternità.

In effetti, insieme abbiam visto e assaporato così tanti luoghi; incrociato così tanti sguardi, che questi dieci giorni si son dilatati, diventando molti di più.

Ma la fine, ahimè, è arrivata anche a questo giro e così, oggi abbiamo detto ciao a Capo Verde, con un ultimo bagno in questo mare stupendo, tinto di un azzurro talmente azzurro, che finché non ci sei dentro, oh, non ci puoi mica credere che al mondo esiste un mare così. Un po’ come il sole, che da queste parti è una grande palla che dispensa baci in ogni dove. Stamani ci ha stretto a sé e ne ha dato qualcuno anche a noi, ché mica poteva davvero farci tornare a casa più bianchi di prima.

Di colori, comunque, queste isole ci han riempito non solo il corpo, ma anche l’anima. Ovunque, infatti, ne abbiam visti di così brillanti e diversi, da perderne davvero il conto, mentre intanto nell’aria soffiavano vento e musica.
Una musica che sa di saudade e allegria, di donne fiere e uomini operosi. Ma soprattutto di bambini, ché corrono liberi, per le strade o in riva al mare, diffondendo qua e là risate di cuore, a perdifiato, su cui vorrei che il sole non scendesse mai.

Per noi due, be’, desidero un po’ la stessa cosa, che i nostri sguardi possano continuare a perdersi insieme chissà dove, in silenzio o immersi nel caos, ché se una cosa della vita l’ho capita, è che niente è più prezioso di un buon compagno di viaggio.

Santa Maria _ Ilha de Sal, 10 febbraio

La domenica, a Santa Maria, a far da sveglia ci sono tamburi e djambe. Sarà che si avvicina il carnevale, che da queste parti sembra coinvolgere davvero tutti e allora, be’, mi par giusto iniziare a suonare sin da oggi, ché davanti a una festa simile, non ci si può mica far trovare impreparati.

Così, mentre la musica avvolge il centro di questa piccola cittadina sul mare, la gente cammina lungo Rua 1 de Junho, sotto un sole che oggi sembra incerto sul da farsi. Se uscir fuori o starsene ancora un po’ dietro alle nuvole, proprio come i ragazzi che ieri han fatto le ore piccole e di cui ancora, in giro, non vi è alcuna traccia.

I bambini, invece, son già per strada. Alcuni si trovano davanti alla Chiesa, che giocano e parlano ad alta voce, insieme a distinte signore in là con l’età. Mentre i caffè son pieni di gente che è pronta ad iniziare una nuova giornata. Ma con calma, eh, ché da queste parti non si corre mai. Non vedo perché lo si dovrebbe far proprio di domenica.

A rallentare, però, non son proprio tutti. Sul porticciolo, infatti, le barche continuano a scaricare pesce, mentre uomini e donne si danno da fare per pulirlo, stiparlo in grandi ceste e poi via, in testa, ché le persone tra poco si metteranno a tavola e a guardarmi introno, oh, di persone ne vedo un bel po’. Tante che mi chiedo, chissà quanto dovranno ancora lavorare per sfamarci tutti?

Già, perché tra quei tutti, oggi, ci siamo anche noi e dato che il tempo a nostra disposizione è ormai agli sgoccioli, ci buttiamo alla cieca su qualcosa di nuovo e ordiniamo cracas e percebes.
Che appena le vedo arrivare, penso, come diavolo farò a mangiare ‘sta riba? Che a vederla, oh, non ti vien mica subito in mente che si possa mangiare. Invece, con qualche istruzione e pinze alla mano, nonostante i pezzi sparati qua e là, siam capaci di ripulire il piatto anche ‘sta volta. Ché anche se è da un po’ che siam lontani da casa, mi sa che siam rimasti gli stessi di sempre.

Da lì a buttare all’aria i nostri piani è un attimo, ché dopo un pranzo così, chi ha voglia di mettersi in macchina? Così ci lanciamo verso Ponta de Sinò, alla ricerca del faro. Non sarà come fare il giro dell’isola, certo, ma del resto è domenica anche per noi. No?

Man mano che ci spingiamo ad Ovest, la spiaggia si fa sempre più deserta. Così vasta che potremmo tirar dritto all’infinito. Intorno, di persone non ce ne sono quasi più e l’unico rumore che si sente è quello delle onde che s’infrangono a riva, assieme a quello immancabile del vento. E mentre il sole inizia la sua discesa, noi siam due puntini insignificanti sulla sabbia. Stesi l’uno accanto all’altro, in silenzio, a guardare chissà dove e a pensare, ma quanto sarà bella la domenica?