il Venerdì _ 18

Anche a questo giro la settimana è stata un po’ più corta, divisa a metà dalla festa dei lavoratori. Sbam!

Un taglio che tutti noi abbiamo apprezzato alla grande, ché lo studio quel giorno è rimasto chiuso. E menomale, dico io, che se c’è un’occasione in cui tutte le attività che si basano sul lavoro dovrebbero fermarsi, è proprio questa. Altro che Pasqua e Natale!

Mica per niente, eh, è che a goder delle feste dovrebbero essere prima di tutto coloro a cui son dedicate. Ché ok, al giorno d’oggi sembra che niente abbia un valore se non vien condiviso, ma certe cose, dico io, son di chi se le merita.

Il Primo Maggio, ad esempio, è di chi passa ore e ore a lavoro per guadagnarsi da vivere; di chi un’occupazione la sta cercando seriamente e di chi si è trasferito chissà dove per seguirla; ci son poi quelli che l’han persa ma non per questo si sono arresi o chi, per questa, ha perso addirittura la vita. Insomma il Primo Maggio è di queste persone qui, mica di tutti!

Gli altri, quelli abituati a campare sulle spalle altrui, quel giorno lì dovrebbero mettersi all’opera. Non tanto per rendere il favore, quanto per capire un po’ di cose… magari. Ad esempio, che al di là della fatica, il lavoro può dare ad una persona la dignità, roba che chi se ne sta con le mani in mano non sa manco cosa sia, ma la speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire.

Un’altra cosa, poi, è la capacità di aprire gli occhi. Il lavoro può anche questo, si, rivelando chi, tra chi ci sta intorno, è degno della nostra stima, della nostra fiducia.

Già, perché mica tutti lo sono eh! Ché anche tra chi lavora ci sono i disonesti, gli scansafatiche, quelli abituati a fare il loro e rizzati, sai. Ma per fortuna c’è anche chi, proprio perché riconosce il valore di ciò che sta facendo, esce dal suo orto, rivolgendo il suo sguardo anche su chi gli sta intorno.

Dove lavoro io, di persone così ce ne son diverse, e menomale, ché correr da sola, credetemi, sarebbe stata davvero una gran fatica. Aver colleghe e colleghi su cui contare è invece una delle fortune più grandi che abbia avuto. Nel delirio che di tanto in tano imperversa da queste parti, è così bello sapere di non esser soli. E allora va a finire che anche se c’è da correre, be’, non è poi così male. Ché se oggi corro di più io, so per certo che domani quel passo in più lo farà qualcun altro.

Non sempre è facile, sia ben chiaro; di sacrifici da fare ce ne sono eccome. Ma in fondo ci si abitua a tutto, anche al sacrificio. Il proprio, certo, ma anche quello degli altri, che anche quando non è rivolto a te, oh, riesce sempre a strapparti un sorriso. Come l’altro giorno, quando davanti a degli ovetti di cioccolato incartati di diversi colori, perché a Teresa non toccasse quello fondente, la Mau non c’ha pensato un attimo e ha detto: “Che problema c’è Tere, ne assaggio uno io e così capiamo quale puoi mangiare e quale no”.

Ed io stavo lì a guardarle, piegate su quei cioccolatini, a pensare che queste, oh, son proprio le colleghe che ci vogliono. Spiritose, leggere e pronte a tutto. Anche a metter su qualche chilo al posto tuo.

il Venerdì _ 17

In questi giorni, l’idea che mi son fatta è che le settimane dovrebbero essere tutte un po’ così: piene di festività, ponti e magari con un solo giorno lavorativo.

Credetemi, non è l’età che avanza che fa passar la voglia e mi rende lavativa. Tutt’altro. È che con l’andar dei giorni, dei mesi e degli anni, mi son fatta quel tanto di esperienza da arrivare a pensare che si, lavorare meno (soprattutto se lo si fa al pubblico), il più delle volte coincide col lavorare meglio.

Oh, non son mica l’unica a pensarla così. Prendiamo ad esempio la famosa rivoluzione svedese, che qualche anno fa ha lanciato l’idea delle sei ore giornaliere al posto delle classiche otto. E a ben vedere, dico io, ché oltre a concederti più tempo per ciò che sta fuori dall’ufficio, certe cose alleggeriscono anche ciò che avviene dentro. Ti fan vivere meglio tutto: gli imprevisti, le alzate di voce, persino il telefono che squilla a diritto. Soprattutto se dall’altra parte c’è una signora come quella che è capitata a me mercoledì, che manco ti dice come si chiama ed è già partita con un: “Vorrei un appuntamento con il dottore quello alto”.
E te pensi: ma come si fa ad avviare una conversazione così? Come se qua dentro, di dottori alti, ce ne fosse uno solo.
Ma dato che sei bella riposata, dici soltanto: “Si ricorda per caso il nome?”.
“No. Ma dai, quello alto – insiste lei – Quello con le lenti”.
Ah, se la mettiamo così…

Insomma, roba che in un altro momento ti avrebbe fatto uscire di testa, ma dato che vieni da giorni di festa e stacco, ti fai una bella risata e via, avanti. Mentre tra te e te ti chiedi se a lavoro ci sei per davvero o se invece tu non sia finita a tua insaputa in una partita a indovina chi.

Bisognerebbe davvero che i giorni e le settimane, fosse sempre così. Come diceva Calvino: bisognerebbe planare con leggerezza sulle cose, ecco cosa. Ma per farlo bisogna prima di tutto esser leggeri noi, ché se poi permane qualche peso, oh, va a finire che invece di planare si cade giù a picco.

Per fortuna, nonostante i ricchi pranzi e le pastiere a non finire, in questi giorni mi son alleggerita e non di poco. Non parlo dello stomaco, eh, ma della mente, che si è fatta vuota, leggera… così tanto che a tratti stento a riconoscerla, ché ultimamente non ci son mica abituata a ‘sta roba qui.

Roba che a dirla tutta non so mica quanto potrà durare. Vedo infatti all’orizzonte il ritorno alla realtà, alle interminabili giornate di lavoro, ché siam già a venerdì e tra due giorni…
Vabbe’, chissene, meglio godersi gli ultimi attimi di libertà guidando sotto questo cielo. E anche se s’è tinto di grigio poco importa, tanto Bob Dylan è qui con me e canta Lay, Lady, Lay, portandomi altrove, a un cielo rosso e lontano, che se ci ripenso, oh, ma chi se lo scorda più quel cielo lì!

il Venerdì _ 16

Se l’andamento della settimana è come il buongiorno, che si vede dal mattino, siamo a posto. Ché a ‘sto giro, va detto, il lunedì, a lavoro, è stata una vera prova di forza.

Tra il telefono che non ne voleva sapere di smettere di squillare e i pazienti, indisposti dal dolore e a loro volta indisponenti, oh, dopo neanche due ore dal mio ingresso in studio, mi son detta, fermate ‘sta giostra, voglio scendere!

Invece, poi, mica son scesa. Ma ho fatto un po’ come facevamo io e i miei amici da ragazzini, quando montavamo sul Tagada con l’idea di stare in piedi, nel mezzo. Il trucco, allora, era non farsi prendere dal panico e non opporsi al ritmo della giostra, ma farlo proprio, fino ad oscillare insieme a lei, sotto ai grandi pini che se ne stavano tra l’Arno e la vecchia cava.
Certo, qualcuno, la sua boccata la batteva comunque, ma provarci era pur sempre una bella sfida, ché alla fine, oh, magari finivi pure per farcela.

Anch’io, alla fine, ce l’ho fatta. E così, per restare in tema di giostre, dopo un lunedì di delirio, la settimana è stato un bel calcio in culo fino ad oggi. Di quelli che un attimo ti senti tirare indietro e quello dopo, via, spinta in avanti, verso il pennacchio. Ché se ti va bene, oh, vinci un altro giro.

Io non lo so mica se l’ho preso o no il pennacchio. Quel che è certo è che le mani l’ho allungate e neanche di poco, ché in questi giorni, in studio, han ripreso a girare dolci.

Sarà che la Pasqua è vicina o che, vuoi o non vuoi, ce lo si legge in faccia che abbiam bisogno di un po’ di dolcezza. Al sapore d’uvetta, come quella di Danilo, o al gusto del cioccolato che ci ha portato la Lia.

Insomma, a noi la dolcezza piace un po’ in tutti i modi, anche quando ha un retrogusto un po’ esotico, come quella di Aziza, che sa di sesamo e noccioline e viene dal Marocco.

C’è poi un altro tipo di dolcezza, che niente ha a che fare col palato, ma è comunque riuscita ad allietare la nostra mattina. È quella della signora Rina, che ieri, a 92 anni suonati, s’è presentata in studio sorreggendosi al braccio di suo figlio, con un mazzolino di fiori viola tra le dita. Son del mio giardino, ha detto, e li ha allungati verso di noi, in regalo. E così, in un attimo, ci ha riempito gli occhi e pure il cuore, ché se fuori la primavera sta lentamente prendendo il via, be’, ne accogliamo con piacere un po’ anche dentro. Soprattutto se a portarcela è una signora sorridente, amante delle piccole cose, e con addosso uno sgargiante golf color lilla, che più la guardo, oh, più, anche lei, somiglia ad un bel fiore.

il Venerdì _ 15

Se c’è una cosa che adoro è quando due persone si capiscono con uno sguardo. Se poi tra quelle persone ci sono anch’io, be’, allora è fatta.

Un po’ come ieri, con la Clau, quando al termine del suo appuntamento, la signora Paola è filata via sotto i nostri occhi. Nessun cenno di saluto, nessun pagherò. Una corsetta e via, fuori. E noi lì, indaffarate come al solito, una al telefono e l’altra pure, senza parole, ma comunque capaci di voltarsi d’istinto l’una verso l’altra e scambiarci un’occhiata in cui ci stava dentro un po’ di tutto.

In quel tutto, a prevalere, è stato senz’altro lo stupore.
Già. Perché sebbene in questi anni se ne sian viste di ogni, qua dentro c’è chi riesce ancora a stupirsi. Il che, dico io, non è mica cosa da poco.

Lo stupore, infatti, porta con se un sacco di belle cose: espressioni indefinite, sobbalzi, sonore risate, e poco importa se son di quelle incredule, a tratti isteriche. L’importante è ridere, ché ridere, si sa, allunga la vita.

Ah, no, quello era il telefono. Be’, allora noi della segreteria siamo apposto. Avremo una vita lunga, ma così luuuunga.

Un po’ come quella del signor Giuseppe, che ha quasi novant’anni e un questi giorni è venuto in studio per sistemarsi i denti.
Ma alla bona, eh, ha detto, ché tanto tra un pochino…
Tra un pochino, che?
Eh, tra un pochino…

Insomma, lui i denti non se li vuol levare, ché finché stan su, si tien quelli che ha. E chissene se il sorriso è un po’ storto, tanto lui mica si vede. E ride.

Mentre dice questo lui non fila via come la Paola. Si sofferma al bancone, fa due chiacchiere, sorride. Quando lo fa solleva le guance e gli occhi prendono a brillare. Pare un ragazzino.

Pare, certo, perché poi fa due passi e torna ad essere l’uomo che è, in là con l’età e un po’ acciaccato. Due passi ancora e si volta. La giannetta, oh, ancora un po’ e me la dimentico, dice.
E lì, quando lo sento dir giannetta mi riporta indietro nel tempo, a quando ero solo una bambina e giravo per le strade di questo paese convinta che il mondo fosse tutto qui. A Incisa. Massimo Figline. Forse.

Altri tempi, caro Giuseppe, lontani e ormai belli che andati, ma grazie per avermici riportato, ché tornar bambini, ogni tanto, non fa altro che bene.

il Venerdì _ 14

Ci son giorni in cui son ripetitiva e non faccio altro che chiedermi: ma chi me lo fa fare di star qui, a perder la testa in questa gabbia di matti?

Quei giorni ormai li riconosco al volo, ché chissà come, oh, nonostante gli sforzi, non ne va una dritta e l’aria dentro si fa pesante, ma così pesante che l’unico modo per risollevarsi un po’ è aprir le finestre e farne circolare di nuova. Che entri negli studi, attraversi i corridoi e s’infili fin negli spogliatoi, purché sia fresca e capace di riportare un po’ di buonsenso, assieme al buonumore.

Quella che ha soffiato in questi giorni è stata esattamente così, fresca e convinta, tanto che oltre ad aprir le finestre, le ho proprio spalancato le porte.

Se ‘un si sta attenti e’ ci porta via tutti, m’ha detto un paziente. Già, ho risposto, ma la porta mica l’ho chiusa, ché di questi tempi val la pena correre il rischio ed esporsi al vento. Chissà, magari, a forza di soffiare, ti sorprende, portando con sé sorrisi, pensieri felici e qualche nuova idea.

È proprio così che è andata ‘sta settimana. E mentre il vento soffiava, ostinato, per spazzar via fino all’ultima nuvola, è stato capace di portar con sé un sacco di bella roba.

Tra le tante, son certa, ricorderò le pagine di carta che racchiudono gli “Aforismi sulla saggezza del vivere” di Schopenhauer.

Il signor Jurgen è venuto fino allo studio per regalarmi quel libro, e l’ha fatto in una mattina qualunque, rapido e gioioso, esattamente come una folata di vento. E poco importa se non ho idea di quando riuscirò a leggerlo, ché il tempo, oh, per leggere sembra non esserci mai. Ciò che conta è che quei pensieri adesso siano qui, di fianco a me, ché quelli, si sa, sono un po’ come il buon vento che soffia alle spalle, mai abbastanza.

il Venerdì _ 13

Questa settimana son stata assalita da un dubbio. Niente di tragico, per carità, ché in fondo, si sa, aver dubbi è sintomo d’intelligenza. Solo che a me, il fatto che ci sia qualcuno in studio che a malapena mi da il buongiorno, oh, m’ha fatto venire un dubbio mica da poco; un dubbio che suona pressappoco così: ma io, sarò forse diventata parte dell’arredamento?

In effetti, se penso alle ore che ogni giorno trascorro qua dentro, il dubbio d’esser diventata come una sedia o che so, un attacapanni, non è affatto campato in aria. Ché a volte immagino che tra i tanti pazienti che si aspettano di trovare le sedie in sala d’attesa o gli strumenti del dentista negli studi, ci sia anche qualcuno che si aspetta di trovare me dietro al banco della segreteria. Esattamente come quelle sedie e quegli strumenti.

La cosa, ammetto, non mi dispiace; mi da anzi un certo piacere, soprattutto se i pazienti son come Riccardo, con cui scambio parole che mi riportano in luoghi lontani, o come Giancarlo, il quale, anche se è stato un’ora buona sotto le grinfie del dentista, riesce comunque ad accorgersi di chi gli sta intorno. Della Mau, ad esempio, o della Teresa. Giancarlo ci vede tutte, vede anche me, e mi regala sorrisi e divagazioni creative.

Questo, penso, dovrebbe bastarmi, ma forse, per aprire certi occhi, potrei iniziare ad indossare vestiti color fluo o perché no, dare un taglio netto ai miei capelli. Anche se, temo che neanche questo funzionerà, ché al mondo, si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e, ahimè, ho la sensazione che con la vista funzioni un po’ allo stesso modo.

La Mau, l’altra mattina, m’ha offerto un’alternativa al taglio netto, che poi, be’, gira e rigira è la stessa di sempre: buttar giù un po’ di zuccheri, ché gli zuccheri, si sa, tirano su e magari, oh, ci fanno anche lievitare un po’, così che certi sguardi possano tornano ad accorgersi di noi. ‘Noi‘, già, perché ho come l’impressione di non esser la sola, qua dentro, ad avere il dubbio d’esser diventata una sedia.

Be’, per fortuna, gli zuccheri non ci mancano. E così, andiamo avanti, ché domani è un altro giorno e chissà, magari, a forza di zuccheri, va davvero a finire che da sedie ci facciam divanetti e chi adesso non ci vede, oh, torna pure a vederci.

il Venerdì _ 12

Se potessi dare un titolo a questa settimana, sarebbe senz’altro l’ombelico del mondo. Che di per sé, dico io, sarebbe un titolo niente male, pieno di punti di fuga dai risvolti conturbanti, a tratti anche un po’ esotici.

Invece no, ché ahimè, gli ombelichi a cui mi riferisco non hanno alcun risvolto se non in sé stessi. Vivono in questo mondo, esattamente come tutti gli altri, e come tutti gli altri, parlano, si muovono… ma gira e rigira, oh, restan sempre lì, ostinatamente ancorati a ciò che sono.

Aver a che fare con gente così è a dir poco avvilente, ché questi, oh, non guardano in faccia nessuno. Passano avanti a chi è in attesa, decidon loro per te e mentre ti guardano dall’alto, son pure capaci d’alzare la voce. Un pacchettino niente male, insomma, che credetemi, è di una tristezza infinita. Di quella tristezza che ti schiaccia lentamente in basso fino a quando non tocchi terra e hai come l’impressione che non ti rialzerai più. Ché se nel mondo c’è gente così, vien da chiedersi, cosa mi rialzo a fare?

Invece, poi, ti dici che se in questa vita c’è un motivo per rialzarsi, oh, son proprio quelle persone lì, che si credono l’ombelico del mondo quando invece non lo sono affatto. Ché questo mondo, che oggi ci chiede aiuto come non mai, di tutto ha bisogno fuorché di ombelichi.

Allora via, in piedi, a tentar d’aggiustare il tiro, ché se fino ad oggi non han capito che in questo mondo esistono anche gli altri, be’, magari non dargliela vinta potrebbe aiutarli ad aprire gli occhi e chissà, magari a scoprire altri volti, altre menti. Quel che è certo, è che farlo aiuterà noi. A sentirci utili, ad esempio, e a tratti anche persone migliori perché non indifferenti.

Il mio è un lavoro in cui non è che si possa far tanto per questo mondo, ma ogni giorno in più che passo qua dentro mi da la conferma che qualcosa può esser fatto, e quindi, dico io, facciamolo. No?

Mi piace il fatto che chi lavora al mio fianco la pensi un po’ così, ché se c’è una cosa che ho capito in questi anni, è proprio che l’unione fa la forza. Anche in queste cose. Ché esser piccoli, o pochi, non significa necessariamente non poter fare la differenza.

A dimostrarcelo, oggi, è Greta, che a soli sedici anni, è riuscita a smuovere le coscienze di giovani, donne e uomini di tutto il mondo, che mi auguro, una volta abbandonata la piazza, restino fedeli a ciò per cui hanno manifestato.

Io stamani ero a lavoro, ma col cuore, ammetto d’esser stata in piazza con loro, ché se c’è una cosa in cui credo è che cambiare si può, ma farlo richiede volontà, coerenza e soprattutto coraggio.

Ciascuno di noi, a modo suo, può far la differenza, a partire dai piccoli gesti per arrivare ai grandi. Quel che m’è parso di capire, però, è che per farlo davvero non si debba mai restare indifferenti, ché se vogliamo un mondo migliore, fatto di persone migliori, oh, c’è da impegnarsi. Altrimenti, be’, guai a chi si lamenta!

Il vero potere appartiene alla gente.
Greta Thunberg


il Venerdì _ 11

Avrei dovuto capirlo sin da subito che questa sarebbe stata una settimana particolare, di cielo grigio, ma dal sapore decisamente dolce, non fosse altro per i cenci e le frittelle che in questi giorni han girato per i corridoi, ché mentre noi eravamo alle prese col lavoro, fuori accadevano un sacco di cose, persino il Carnevale.

Per fortuna, a portarne un po’ anche a noi, d’allegria e di colore, ci han pensato i pazienti. Soprattutto quelli dal metro in giù, pronti come non mai ad aprir bocca davanti al dentista per poi mettersi la maschera e via, di corsa su un carro.

Anche i più grandi, però, a modo loro si son dati da fare. Mi vengono in mente Brunetta e Ascanio, due pazienti in là con l’età, venuti per la prima volta in studio lunedì. Ma che bella accoglienza, han detto, come siete bravi e la simpatia, ecco, quella la s’è trovata da subito. E così, hanno offerto il caffè a tutti. Che dico io, non saran certo coriandoli e maschere, ma anche le parole, quando son buone e spontanee, san regalare sorrisi e buonumore. Tanto che alla fine, oh, il nostro Carnevale ce l’abbiamo avuto pure noi.

A dir la verità, noi, il Carnevale ce l’abbiamo un po’ tutto l’anno. Con la varietà di persone che vediamo passare in studio, infatti, non potrebbe essere altrimenti. E anche la quantità ci mette del suo, ché in alcuni momenti, oh, par d’essere a Rio, travolti dalla folla e dalle emozioni.

Già, perché quelle non mancano mai. Soprattutto se lavori in una squadra fatta per l’80% di donne. Che di per sé, dico io, già questo è un gran bel Carnevale.

C’è di positivo che la noia, qua dentro, nessuno sa cosa sia, ché quando si è donna non esiste un giorno uguale all’altro. Figurarsi quando le donne diventano cinque, otto, tredici… Sbalza l’umore, volano i pensieri e non si fa altro che correre, chi da una parte all’altra e chi sul posto, da ferma, ché mica si può esser tutte uguali e così ognuna corre a modo suo. Quel che ne vien fuori è un continuo dimenarsi di gambe, parole e pensieri, tanto che a volte mi chiedo, chissà chi ci vede da fuori cosa pensa di noi?

Be’, spero solo che questi occhi riescano a cogliere almeno in parte la vitalità che anima le nostre esistenze, che per quanto siano sonfusionate e arruffate, oh, non si riposano mai. Dedite a un confronto continuo, al sostegno di chi ci sta accanto, alle sue fatiche, ai suoi sogni e anche ai nostri. E se poi qualcuno ci mette i bastoni tra le ruote, be’, con una risata e magari un dolcino ci tiriamo su. Ché in questa vita, si sa, i problemi sono altri e le cose van prese alla leggera.

Saperlo fare, intendo sul serio, non è da tutti. Io, ‘sta cosa, credo d’averla imparata da mia mamma, che per carità, non sarà certo impeccabile, ma a me, in questi anni, ha saputo insegnare tanto, lasciandomi la libertà di tentare, prender qualche travata e tornare a rialzarmi. E anche se negli ultimi tempi ci vediamo poco, ché io son sempre chissà dove, le sue parole continuano a farmi da guida. Un po’ come quelle che m’ha scritto per sms l’altro giorno: Forse dovrei fare la mamma giudiziosa e dirti di risparmiare. Invece sai che ti dico? Ma vai e divertiti!

Che per i più, lo so, queste parole non significano niente, ma per quanto semplici siano, a me sono arrivate proprio nel momento giusto. Ché a volte, dico io, più che di un abbraccio, in questa vita abbiam bisogno di una spinta verso ciò che ci rende felici. Capirlo non è affatto facile. Immagino che saperla dare, quella spinta, lo sia ancora meno, quindi grazie ma’, a te e a tutte le donne della mia vita, che spingono e si fanno spingere, verso l’infinito e oltre.

il Venerdì _ 10

Passata l’euforia del rientro, questa settimana son tornata alla realtà. E stavolta intendo sul serio, mica per dire. Dopo i racconti spassionati e gli abbracci stretti, infatti, la vita è tornata davvero ad essere quella di sempre, con inseguimenti nei corridoi e raccolta di “Ne parliamo dopo”. Altro che spiagge paradisiache e mare cristallino. Un pacca sulle spalle e via, si riparte.

La pacca, a dire il vero, ho come l’impressione d’averla presa sulle chiappe, ché da queste parti, oh, non si fa altro che correre. Tanto che a tratti mi tornano alla mente gli abitanti dell’Isola di Santiago. Atletici, instancabili e con dei culi ma dei culi, che se ci ripenso, mi dico, vuoi vedere che con tutta ‘sta corsa alla fine vien fuori anche a me un culo così.

Lo ammetto, un po’ lo spero, ché la speranza, si sa, è l’ultima a morire. E così, mentre corro, mi capita anche di sperare. In un culo migliore e in un sacco di altre cose decisamente più edificanti. Come ad esempio che il nostro correre quotidiano prima o poi ci porti da qualche parte. Ché ok il non poter aver tutto sotto controllo, ma ogni tanto, dico io, sarebbe anche il caso di saperlo dove si sta andando. Non fosse altro per il fiato e le gambe, che col passare degli anni, di tutta questa corsa per chissà dove, iniziano un po’ a risentirne.

Di tanto in tanto, allora, me lo chiedo: Si può sapere dov’è che stiamo andando esattamente?

E quando lo faccio, be’, lo faccio ad alta voce, ché la risposta non può mica esser solo la mia.

A quanto pare, però, la mia voce è troppo bassa o forse si muove su frequenze diverse da quelle a cui mi rivolgo. Chi lo sa?
Quel che è certo è che quella domanda cade spesso nel vuoto, in un toc silenzioso che ricorda quello di un cellulare che tocca terra. Che le prime volte ti disperi, ma dopo un po’ che capita, non ci fai più manco caso. Lo raccatti e via, in attesa della prossima inevitabile caduta.
Toc.

Chissà, forse la verità è che in questa vita ognuno corre da solo e un po’ dove gli pare. Anche se ‘sta cosa, a me, non piace mica poi tanto. Be’, per fortuna ci pensano i cenci dell’Anna a tirarmi su. Per Berlingaccio s’è data un gran da fare e figuriamoci se la Mau non ce ne avrebbe portati un po’ anche a noi, ché la parentesi delle arance, mi sa, non ha fatto in tempo ad aprirsi che si è già conclusa. E così, con quel dolce sapore in bocca e la voce di Cesária Évora che mi gira in testa, in questo grigio inizio di marzo io continuo a sperare. Prima o poi quella risposta arriverà; e chissà, magari anche un bel culo capoverdiano.

Sodade _ Cesária Évora

il Venerdì _ 09

Le cose belle, si sa, non durano in eterno. Un po’ come le ferie, che le aspetti per giorni, settimane, e poi, quando finalmente arrivano, è un attimo che se ne volan via.

E così, adesso, dei mari del sud non resta che un caldo ricordo che sa di sale, cachupa e gin tonic. D’un tratto, infatti, lunedì mi son ritrovata di nuovo in ufficio. Sbam! Scaraventata in quella che è la vita di sempre, fatta di mal di denti, capsule saltate e preventivi.

Il sole, fuori, ha continuato a splendere come se nulla fosse, solo che io, le ore, ho ripreso a passarle dentro e così, il mio colore sta lentamente tornando ad essere quello di sempre: un bianco che un giorno vira al rosa e quello dopo al grigio, in una scala cromatica che chissà come, a volte riesce addirittura a spingersi fino al verde.

Ma suvvia non ci lamentiamo, ché son tornata da appena una settimana e poi, va detto, il rientro poteva andare decisamente peggio, anche se in questi giorni non mi son fatta certo mancare niente. Ho avuto a che fare col paziente sarcastico, con quello acido e col marpione. C’è poi chi ha smattato dal dolore e chi, invece, mi ha espresso il suo sostegno, ché qui, ha detto, avete un bel da fare, eh.

Già! Ma devo ammettere che per quanto sia stato faticoso, è stato anche bello, dopo tanto, tornare a respirare aria di casa. E poco importa se questa casa odora di studio dentistico. È stato comunque bello, si, ché gli abbracci che mi danno qui, non me li danno mica da tante parti.

Le cose, insomma, son rimaste pressappoco le stesse di prima che partissi. Dico pressappoco perché al mio rientro ho trovato i timbri da tutt’altra parte, qualche forza operativa in più e la Mau con una manciata d’arance al posto delle solite brioches. Ché non posso mica continuare a buttar giù dolci su dolci, ha detto.

E poi, be’, ho trovato un bigliettino, messo vicino al computer a ricordarmi quanto sia importante, in questo marasma, starsi accanto tutti i giorni e riuscire così a farsi un tutt’uno.

“Un amico saggio sa evitarci molte pene”.
Baltasar Gracian