il Venerdì _ 48

Un tempo amavo il venerdì perché preannunciava il weekend. Oggi continuo ad amarlo, anche se per un motivo del tutto diverso. Salvo imprevisti, infatti, il venerdì è il giorno in cui tocca a me andare a lavoro. Il che ultimamente rappresenta una ragione più che valida per lasciarsi andare all’entusiasmo, ché finalmente si esce. Evvai!

È andata così anche stamani, quando alle 7.40 mi son lanciata fuori di casa. Va detto che a guidare i miei passi a quell’ora più che l’entusiasmo era l’inerzia, ma questo non ha certo impedito al mio sguardo di notare due/tre persone davanti all’ingresso della Coop, ferme in attesa che qualcuno giungesse a dar loro il via. E poi, vai di spesa!

I miei occhi son così disabituati agli esseri umani, che non appena ne vedono uno vanno in brodo di giuggiole. Solo che poi, man mano che camminavo in cerca della mia auto, mi sono accorta che le persone in fila non erano due/tre, ma moooolte di più. Un serpentone stretto e lungo che sembrava non finire mai, e che ha trasformato la curiosità di poco prima in un tale fastidio che, oh, se non fosse stato il dovere a chiamarmi me ne sarei tornata dritta dritta a casa tra le mie quattro mura a fare la muffa.

Lo so, non dovrei dire così; ognuno ha le sue ragioni per far ciò che fa ed io forse dovrei essere più comprensiva, chiudere un occhio – o magari tutti e due – ché a Natale, si sa, siamo tutti un po’ più buoni. Appunto… a Natale, mica a Pasqua.

Con la Pasqua non so esattamente come funzioni, ma so per certo che abbiamo un problema. Houston!! Abbiamo un bel problema di analfabetismo funzionale, dato che non riusciamo a comprendere neanche un semplice e chiaro #stateacasa.

Per carità, lungi da me avercela con chi se ne stava in fila stamani, ma sembra addirittura che nei prossimi giorni qualcuno abbia in programma di fare le classiche rimpatriate – più o meno in sordina – alla faccia di tutto e tutti.

Credetemi, qui non c’entra l’esser buoni o cattivi; si tratta piuttosto di saper ascoltare, come ha fatto l’altro giorno Francesco, quando è andato a comprare la frutta sotto casa e ha sentito due persone del quartiere parlare. “A Pasqua che fate? – ha chiesto un signore ad una signora come se nulla fosse – vi ritrovate e state tutti insieme?”. La signora con le buste piene di roba ha detto: “Si, eh!” e ha sorriso un po’ di nascosto.

Be’, per lo meno ha avuto il garbo d’abbassare un po’ la voce, mica come quelli che si fanno centinaia e centinaia di chilometri – in culo ai divieti – per raggiungere le seconde case e passar questi bei giorni sui loro balconi in riva al mare.

Poi, di contro c’è chi il rischio non lo corre col pranzo di Pasqua o la scampagnata a Pasquetta, ma con l’impegno quotidiano, che va avanti ormai da un mese. Son quelle persone che han chiuso ditte e negozi, che chissà se ce la faranno a riaprire e a garantire ancora posti di lavoro ai dipendenti. Oppure son quelle persone che stanno così attente a non sgarrare, che anche se hanno mal di denti da giorni, son disposti a tenerselo pur di non incorrere in un controllo e rischiare d’essere sanzionato.

Ne ho sentite diverse, oggi, di persone così ed è stato un piacere poter offrire loro un servizio e rassicurarli, ché in caso di controllo, ho detto a ognuno di loro, chiamate pure lo studio. Garantiamo noi, ci mancherebbe!

I loro sorrisi, grati e sollevati – per il dolore alleviato o per un gesto che finalmente ha riportato nelle loro vite un po’ di ‘vicinanza’ – son stati una carezza al cuore, non solo per me, ma anche per Ilaria e Sandrina con cui oggi ho lavorato.

Di questi tempi, lavorare – seppur a ritmi drasticamente ridotti – è davvero una fortuna, ma cedetemi se vi dico che è anche un’enorme fatica, soprattutto in ambito sanitario. Ma in fondo, be’, ci siamo abituati: alla fatica e anche alla varietà dell’essere umano, ché chissà perché da queste parti non ci siam mai fatti mancare nulla.

Smetto quindi d’illudermi che da questa emergenza ne usciremo migliori. Ognuno ne uscirà come più gli si addice: chi più furbo, chi più responsabile, chi più forte o generoso… e poi, be’, ci sarà anche chi ne uscirà più stronzo.

Per quanto riguarda la mia, di uscita, ci sto ancora lavorando su. Non so bene come sarò una volta fuori e cosa questa emergenza m’insegnerá. Ma come sempre son sicura che si debba procedere a piccoli passi, così, intanto ne ho approfittato per imparare finalmente ad aprire il vino con questo.
Ché per quanto questi giorni siano un po’ tutti uguali, oggi è pur sempre venerdì.
Allora buon weekend, buona Pasqua e buon tutto.
CIN!

il Venerdì _ 47

Oggi sono uscita, che bello!
E anche se la porta di casa si è aperta solo per andare a lavoro, be’, bello lo stesso!
Non avrei mai pensato che un giorno andare a lavoro avrebbe rappresentato l’unica occasione per prendere una boccata d’aria, rivedere prati verdi e svagarsi un po’. Invece… com’è che si dice? Nella vita mai dire mai.

Sebbene in molti si credano supereroi – intoccabili e in nessun modo vulnerabili davanti alle sfide che questa emergenza ci propina – sono certa che si stupiranno nello scoprire quanto la fatica e la pesantezza di questi giorni non facciano sconti a nessuno. Manco a loro, supereroi o presunti tali. Prima o poi, infatti, un piccolo cedimento arriva per tutti, ché per quanto siano luminose e ben agghindate le vostre case, oh, quatto mura son pur sempre quattro mura.

Io, ad esempio, in questi giorni ho iniziato a far strani sogni. Sogni a cui sebbene debba riconoscere una certa creatività, son così impegnativi da togliermi il sonno e da darmi la certezza che si, la vita normale inizia davvero a mancarmi.

Mi mancano le cene dai miei, le voci per strada, le lunghe camminate. Mi mancano addirittura le cose fastidiose, come la sabbia nel costume, la gente che salta la fila ed ora che son qui in autostrada, di ritorno verso casa, sarei capace di tirar dritto per spararmi un panino mal scaldato e un po’ stantio in un autogrill in culo al mondo al modico costo di 7,50€. Cose che un tempo avrei di sicuro mal sopportato, ma che adesso mi fan pensare ad una sola cosa: libertà.

Ah, quanto mi manca tutto questo…
Ma tranquilli, non farò alcun tuffo in mare né mangerò panini – per lo meno non in autogrill. Esco alla mia uscita e filo dritta a casa.

Già, perché se c’è una cosa che in questo delicato momento il mio lavoro riesce a garantirmi – per quanto vada a rilento – è un prezioso e sempre attento sguardo sul mondo della salute.
Chiariamoci, noi non siamo né in un pronto soccorso né in una terapia intensiva – il merito dell’essere in prima linea lo lasciamo ad altri: medici, infermieri, volontari… – ma le informazioni ci arrivano eccome; ci arrivano da amici e colleghi, persone autorevoli, che in prima linea ci son davvero e che non fanno altro che ripetere che non possiamo in alcun modo permetterci di abbassare la guardia, neanche adesso che l’aria profuma di primavera e in cielo splende un bellissimo sole.

Quindi filo dritta a casa e dopo cinque ore di lavoro – che chissà come son sembrate esser molte ma molte di più – magari mi sparo un panino, comodamente seduta sul divano e con vista Settignano, come sempre da un mese a questa parte.

Lo faccio per me, certo, ma anche per coloro a cui voglio bene e anche per quelli che questa mattina, a lavoro, m’è capitato di sentire e che senza accorgersene, oh, son stati capaci d’infondermi una tale fiducia nell’altro che mi son detta, qua bisogna tenere duro, bisogna continuare ad impegnarci, nonostante la voglia di fuggire ed il sonno che inizia a mancare.

Non avrebbero potuto farmi un regalo più bello: fiducia, finalmente, e un po’ di misura – roba davvero rara per questi tempi in cui chissà perché in giro sembrano tutti medici, politici, economisti… Invece, oh, con un po’ di gentilezza, Gino e la signora Alma stamani son riusciti a darmi una bella scaldata al cuore. Il primo chiamando in studio per sapere come stavamo, tutti, e per chiedere “Com’è che posso fare per versare il mio acconto? Avevamo concordato che avrei pagato la mia quota a fine marzo, ma col fatto che non posso uscire di casa…”. La seconda, ripetendo a gran voce nella cornetta “Forza, eh! Coraggio!”.

Una roba che me li ha fatti sentire così vicini, così partecipi, che d’un tratto mi son ritrovata come stretta in un abbraccio, di quelli che ti bloccano le spalle e tu non puoi fare altro che sorridere.

Per gli abbracci, intendo quelli veri, ahimè, dovremo aspettare ancora un po’. Bisogna essere attentissimi, mi ha detto oggi Daniela – e se lo dice lei che è un medico non posso fare altro che darle retta – ma positivi. E l’ha ripetuto un paio di volte: attentissimi, ma positivi, ché l’esser positivi, si sa, aumenta le nostre difese.

Allora avanti, attentissimi ma positivi. Fosse mai che da tutto ‘sto casino non se ne esca anche migliori. L’ultima volta che m’è capitato di pensarlo ho visto orde d’italiani saltar giù dal letto in piena notte per spostarsi da nord a sud, alla faccia del buon senso e dei divieti, allora mi son ripromessa di mettere a tacere tali speranze. Ora che son qui, però, seduta a gambe incrociate sul mio divano, le parole della Dani mi risuonano in mente come un mantra: attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi, attent… Oh, non se ne vogliono andare via più, tanto che mi viene da pensare, chissà che alla fine non se ne esca davvero migliori.
Del resto, com’è che si dice?
Nella vita mai dire mai.

Attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi, attentissimi ma positivi…… Om…..

il Venerdì _ 46

Nei giorni passati ho provato più volte a concentrarmi, a chiudere gli occhi e a sputar fuori qualche pensiero che avrei messo nero su bianco e poi, taaac, ecco fatto il Venerdì.

Invece niente.
Niente nero su bianco, niente taaac e soprattutto niente Venerdì.
Son tre settimane che va avanti così. Tre settimane.

Badate bene, non che in questi giorni nella mia testa ci sia stato silenzio. Tutt’altro. C’erano – e ci son tutt’ora -, infatti, un sacco di voci, ognuna a suo modo più o meno ragionevole, che però si accavallavano l’una sull’altra impedendomi di tenere il filo del discorso. E così, dopo qualche minuto, perdevo inevitabilmente il senso del mio scrivere, presa com’ero a fare la lotta con un altro paio di pensieri.

Allora ho alzato bandiera bianca.
Basta scrivere, basta provarci. Se proprio vuoi scrivere, mi son detta, scrivi di altro. Oppure datti alla cucina, come la gran parte degli altri là fuori… o forse dovrei dire là dentro?
Vabbè, ci siam capiti…

Per qualche giorno l’ho fatto davvero. Ho raccolto tutto il mio entusiasmo e mi son data in pasto ai fornelli, alla tv, a qualche pagina di libro… E m’è parso anche di cavarmela bene, con tutta quella roba lì. Poi però quando meno me l’aspettavo, ‘sta storia del Venerdì è tornata a farsi viva, ché io, seppur a ritmi molto ridotti, in questi giorni a lavoro ci son stata eccome. E quindi Toc toc.
Anzi, toc tooc toooooc
Allora ho pensato fosse il caso di concedermi un po’ della comprensione che in genere riservo agli altri, dicendomi che in fondo, in una fase di totale incertezza come quella che stiamo vivendo, perdersi un attimo è più che normale, ma non per questo bisogna arrendersi.

Quell’attimo, lo ammetto, va avanti ancora adesso che son finalmente tornata a scrivere. Non so quanto di sensato verrà fuori, ma di sicuro già l’idea di farlo mi fa stare bene.
Tra i miei piani ci sarebbe quello di dar voce a coloro che seppur a distanza mi son stati vicini in questi giorni. Ai pazienti, che in gran parte han capito le limitazioni che ci siamo imposti e sono stati i primi a voler rimandare gli appuntamenti non urgenti. Be’, ad essere sincera c’è stato anche chi ha dimostrato di non aver ancora afferrato la gravità della cosa, gridando per telefono, ad esempio, che se il figlio ha una scheggiaturina nell’apparecchio, oh, bisogna assolutamente che qualcuno lo veda. Ma noi alla fine non l’abbiam visto, ché bella mia, non è che se gridi di più va a finire che ti diamo retta. Qua la situazione è seria. Seria sul serio. E anche le emergenze van valutate con serietà.

Per questo dico grazie anche a quei preziosi colleghi che si son fatti vivi, a coloro che ci sono stati – fisicamente e non -, stringendosi intorno ad una realtà che fino a pochi giorni fa per molti di noi era quasi una seconda casa, piena di gente, di voci, di vita, mentre ora vediamo vuota e silenziosa come non mai.

È un silenzio che se solo ci penso mi si dilania lo stomaco, quasi quanto aver visto la Mau, ieri, con le lacrime agli occhi perché avrebbe tanto voluto abbracciarmi, e invece…

Mi chiedo quando tutto questo finirà, quando la sala d’attesa tornerà a pullulare di gente ed il telefono a snervarmi col suo trillare incessante. Non vedo l’ora di tornare a quella fottuta normalità, che un tempo m’è capitato anche di mal sopportare mentre adesso spero solo che torni al più presto, insieme agli abbracci, ai dolci disseminati in ogni dove, alle risate e perché no, anche alle incazzature. Visto che ci siamo, infatti, mi par giusto non farsi mancare nulla!

Se vogliamo che tutto questo torni presto, però, dobbiamo starcene tutti a casa.
A CASA. Capito?!
Perché se non lo faremo, intendo sul serio, ci ritroveremo tra qualche settimana a chiederci, chissà quanto ancora dovremo restar sospesi in questa assurda situazione?
Ma soprattutto, cari miei, al di là di quello che ci piace ripetere dando sfogo ad un’istintiva quanto insensata fiducia, se non lo facciamo subito, se non iniziamo cioè a prendere sul serio questa situazione, be’, col cazzo che andrà tutto bene.

Quindi facciamoci tutti una grande cortesia, #stiamoacasa.

Punto.

Milo Manara

il Venerdì _ 45

Ricordate la scorsa settimana, quando vi raccontavo il mio espediente per andar oltre la nebbia?
Be’, ho come la sensazione d’aver un po’ esagerato con questa storia dello stringere gli occhi. In questi giorni, infatti, ho visto un sacco di cose e quando dico un sacco lo dico con un po’ di rammarico, ché detto tra noi, alcune di quelle cose me le sarei anche evitate.

Ho visto, ad esempio, un ragazzo di vent’anni, che dopo aver subito un’estrazione ha chiesto al dentista: “Ma poi il dente mi ricresce?”.

Ho visto poi genitori far finta di niente mentre i loro bimbi se ne stavano distesi pancia a terra a nuotare in un mare di costruzioni colorate, urlando come se al mare ci fossero davvero. Invece no, quella era la sala d’attesa di uno studio medico. La stessa in cui un uomo ha preso a camminar su e giù, cellulare alla mano, a far sentire i fatti suoi a tutti, interessati e non. E dopo di lui, ho visto una signora di ottant’anni, incuriosita dai calendari sul bancone.
“Bellini”, ha preso a ripetere tra sé e sé e dopo un po’ che parlava da sola, s’è girata verso la figlia e ha detto: “Si potrà prendere?”.
“Cosa?”, ha detto la donna.
“Un calendario”.
“Ma se ce l’hai già”, ha risposto scocciata.
Allora mi sono inserita io: “Ne vuole uno signora?”.
“Si possono prendere?”, ha domandato, già pronta ad acciuffarne uno.
“Certo, solo che chiediamo un contributo di 5€ che verrà devoluto all’Associazione…” e mentre tentavo di spiegarle i fini di quella raccolta, la vedo che ritira la mano, storce il naso e bofonchia: “Un po’ cari…”.
Dico io, signora, per prima cosa c’era scritto (e anche grande), secondo di poi, mica gliel’ha prescritto il dottore, il calendario…

Ma poi, d’un tratto, in quella che più che una sala d’attesa pareva esser diventata la piazza d’un mercato, tra via vai, grida e contrattazioni, vedo lui. Be’, a voler essere precisi lo sento. Già, perché in un rarissimo ed irreale attimo di silenzio, avverto alle mie spalle uno strano stac stac. Così mi giro, ed è in quell’istante che lo vedo, disinvolto e sereno, che come se niente fosse, testa bassa e gambe accavallate, si taglia le unghie.
Stac stac

Non so se ridere o piangere. Dovrei arrendermi, credo, issar bandiera bianca e darmi alla fuga. Però poi torno a guardarlo, immerso nel caos ma del tutto estraneo ad esso, e tra uno stac e l’altro, in un misto d’invidia e ammirazione, penso, però… coi tempi che corrono son doti anche queste.

il Venerdì _ 44

Il venerdì che era saltato fuori all’inizio era un venerdì che somigliava alla nebbia di questi giorni: gelida e così fitta da riuscire a togliere in un sol colpo vista ed entusiasmo.

Ma state tranquilli, non è che d’un tratto abbia deciso di scrivere di meteo. Prima che questo accada ho l’impressione che dovranno passare un bel po’ di anni, ché di poche cose son certa in questa vita ma di sicuro finché continuerò ad incontrare tutta ‘sta gente gli argomenti non mancheranno.

È che più vado avanti più mi da l’idea che in questa vita alcune persone che ti capitano a tiro, son proprio come questa nebbia, messe lì appositamente a toglierti vista ed entusiasmo. Una roba che me la mette così male, ma così male, che mi son detta, sarà mica il caso di lasciarla andar via ‘sta nebbia almeno oggi che è venerdì?

La risposta non può che essere si. Un SI convinto, che per uscir fuori così convinto richiede un esercizio quotidiano, fatto di occhi serrati e tentativi disperati di mettere a fuoco quello che si trova oltre questa fottuta coltre di nebbia.
Una roba che tutto sommato viene quasi naturale ad una miope come me, che serro gli occhi dai tempi dell’università.
Anni ed anni d’esercizio, insomma, rispetto ai quali ho sempre pensato, che palle, mentre oggi giocano (e non poco) a mio vantaggio.

E allora via, ad occhi serrati oltre questa nebbia, per finire sulla Mau che dopo un mercoledì pomeriggio di segreteria racconta barzellette con entusiasmo o su Graziano, che ieri s’è fermato a raccontarmi con un sorriso bello pieno le sue giornate da pensionato dedite ai due nipotini.
Finisco anche sulla Ele e la sua risata incredula seguita da un altrettanto incredulo IO NON HO PAROLE, dopo aver inseguito un paziente in preda al mal di denti che appena entrato in studio si è lanciato in poltrona da solo senza nemmeno passare dal via.

Oh, a forza di star così serrata, arrivo a vedere persino la Paola ed i pasticcini che ha portato a noi segretarie per ringraziarci del fatto che il suo 2019 si è chiuso senza alcun debitore. E allora via, a godersi ‘sta coccola, ché visti i tempi che corrono ce la siam proprio meritata. Un po’ come i miei stivali, che seppur nuovi di pacca parevano destinati a restare chiusi in un armadio per sempre, mentre invece, adesso, grazie ai piedi della Elsa, potranno finalmente avere una vita vera, tra prati, pozzanghere e luoghi meravigliosi.

Insomma, cari miei, come avete potuto vedere, serrare gli occhi può davvero portarci altrove. Non so dirvi esattamente quanto lontano, ma di sicuro ci catapulta oltre la nebbia che vorrebbe tanto toglierci la vista, l’entusiasmo, i sogni, il piacere delle piccole cose… Tutta roba che invece dobbiamo tenerci stretta e difendere ad con occhi serrati e cuor leggero.

Una cosa che non so perché mi ricorda tanto il titolo del nuovo libro di Fabio Genovesi: Cadrò, sognando di volare.

Parole che che messe insieme così mi piacciono un sacco. Per questo le prendo volentieri in prestito per chiudere un venerdì che, ad occhi serrati, si ribella al grigiore che certa gente vorrebbe portare nelle vite degli altri.

Se lo si vuole davvero, infatti, la vita può essere leggera e piena di luce. E se poi capita di cadere, pace. Per lo meno sarà stato a causa del troppo sole e non per la fitta nebbia.

Leggete Fabio Genovesi.
Leggete “Versilia Rock City”.

il Venerdì _ 43

Il mattino, si sa, ha l’oro in bocca, così stamani mi son svegliata con l’intenzione di chiudere la settimana al meglio, facendo tutto quello che mi ero riproposta di fare in ‘sti giorni e potermi poi godere il weekend in totale relax.
Allora son saltata fuori dal letto all’alba per fare colazione con l’Ale e darle la locandina del mio libro, ché lei è talmente entusiasta di sostenere questo mio progetto e talmente abile nel farlo, che m’ha detto: “Oh Ire, dammene una copia, la metto in azienda. Vedrai!”
Così ci siamo date appuntamento al bar. Solo che poi, arrivata lì, avvolta nella nebbia delle 7.30 e con gli occhi ancora abbottonati, mi sono accorta d’aver dimenticato la locandina. E che cazz… Ho pensato, dandomi più volte della scema, ma poi mi son detta, poco male, ché almeno ho avuto un’occasione per vedere l’Ale, conoscere Barbara e tuffarmi di prima mattina in un buon cappuccino. Ciaf!!

Una partenza, quella di oggi, che è stata la sintesi esatta degli ultimi giorni, fatti di tentativi di far le cose al meglio, superando ostacolo dopo ostacolo. E dopo ogni ostacolo superato, taaaac, eccone subito un altro. Giusto per tenersi in allenamento, eh.

Si, a lavoro in questi giorni è andata proprio così. Per questo ho deciso di non regalare troppe risate, sorrisi, magari attimi di tenerezza… Ma di ‘usare’ questo Venerdì 17 per offrirvi qualche interessante spunto di riflessione sull’Italia di oggi.

Per farlo, però, devo partire da quando, qualche sera fa, siamo andati a letto che era il 2019 e l’indomani ci siamo svegliati nel 2020, sbam!
Un cambiamento mica da poco, eh, che ha portato un nuovo anno, un nuovo decennio e anche un sacco di altre novità, che non so se sia possibile definire buoni propositi, chissà… Quel che è certo è che da allora, cioè dal primo gennaio duemilaventi, il mio lavoro, assieme a quello delle mie colleghe, si è complicato un po’, dato che non so se lo sapere, ma da quest’anno, per poter detrarre le cure mediche (nel nostro caso odontoiatriche) i cittadini dovranno effettuare il pagamento solo con mezzi tracciabili (carta, bancomat, assegno… per intendersi, tutto ciò che non è il contante), conservando non solo la fattura ma anche l’attestazione dell’avvenuto pagamento (scontrino pos, contabile bonifico…).

E fin qui, niente di trascendentale. Figurariamoci, noi il pos ce l’abbiamo da sempre e le fatture si fanno TUTTE, ad ogni sacrosanto pagamento che riceviamo.
Pensavamo, quindi, che l’impatto con questa novità sarebbe stato pari a zero. Invece, be’, in questi giorni ci siamo accorte che per aiutare i cittadini a detrarre le loro spese, abbiamo ‘perso’ (o meglio, rimandato) la riscossione di più d’un pagamento. La gente, infatti, davanti a questa novità dello stop ai contanti per le detrazioni cade dal pero. C’è chi si fruga in tasca e dice “Adesso ho solo i contanti.Tornerò con la carta. Va bene prossima settimana?”
E allora, che fai? Gli dici di no?
Ma i più radicali son quelli d’una certa età, che se ne escono convinti: “Sie bah! Un ce l’ho mica io i’ bancomatte. Io fo’ co’sordi!“.
E allora giù, a spiegare che quel che dici, lo dici per loro, mica per te, ché in realtà tu quei contanti potresti pure prenderli e far fattura, ma poi loro non la possono scaricare e con tutti i soldi che già regaliamo allo Stato, signori miei, gliene vogliamo lasciare altri?

Insomma, da queste parti, dove non facciamo altro dalla mattina alla sera che fare: cure dentistiche, riscossione pagamento, regolare fattura; cura, pagamento, fattura; cura, pagamento, fattura; … l’impatto con la novità è stato un bel po’ impegnativo.
Se contiamo, poi, l’aumento dei costi relativi al maggiore uso del pos (tutti a carico dell’azienda, ovvio, e senza alcun tipo di agevolazione), la cosa si fa decisamente interessante.
Mai però quanto la novità che abbiamo appreso ieri dalla commercialista e che ci ha lasciate letteralmente senza parole.
Se una persona, infatti, vorrà poter usufruire delle detrazioni fiscali, oltre a pagare le cure con bancomat, carta, bonifico o assegno (sacrosanto, per carità), conservando fattura e copia della transazione, il mezzo utilizzato per il pagamento dovrà essere a lui/lei intestato. Questo significa, ad esempio, che se un anziano dicesse al figlio “Puoi pagare tu per me col bancomat – così posso detrarre – poi ti rendo i soldi in contanti?”, be’, non è ancora ben chiaro se poi quella fattura la potrà scaricare oppure no.

Ed allora io, con tutta la buona volontà che ho e il desiderio di contribuire a rendere questo un Paese migliore, dico, ma siamo sicuri che questo ci aiuterà a far emergere i furbi? A colpire finalmente gli evasori?

Muah
Sinceramente di lavoro ne ho fin troppo per metter bocca in quello degli altri, ma se fossi io a dover cercare soluzioni, intendo delle soluzioni serie, partirei da quella paninoteca di Siena, a ridosso di Piazza del Campo, in cui il 6 gennaio ho speso 18 € per due panini e una birra e quando ho mostrato il bancomat, con l’intento di usarlo, mi son sentita dire: “Eh, no, per pagare solo contanti, ché il pos ancora non ce l’abbiamo”.
Allora ho racimolato la moneta (per fortuna che ne avevo) e ho pagato. Il ragazzo ha preso tutto e ha aggiunto: “Lo scontrino te lo porto poi io al tavolo”.

Oh che l’ha’visto te?!

il Venerdì _ 42

Anche se da dieci giorni abbiamo fatto un balzo in avanti, entrando in un anno fatto di cifre tonde e doppi zeri, i ritmi mi sembrano rimasti più o meno quelli di prima.
Dico più o meno perché per quanto ognuno abbia sulle spalle il suo bel carico d’impegni e il piede di nuovo pronto a spingere sull’acceleratore, al momento i più stanno tenendo una velocità di crociera: passi rilassati, parole pronunciate con calma e sorrisi. Ma parecchi, eh, decisamente più di quelli che mi sarei aspettata. Tanto da arrivare a guardarli con sospetto e a chiedermi, ma tutti ‘sti sorrisi, ‘sta beatitudine, non saranno mica un effetto degli zuccheri dei giorni scorsi?

Be’, su alcuni non ho dubbi, di zuccheri durante le feste devono averne buttati giù molti, ché a cose normali, credetemi, una simile calma me la sarei sognata.

Poi, però, ci son quelli che son beati anche senza additivi, ché son già dolci di per sé e amano così tanto la vita che ti sorridono a prescindere. Come la signora Anna Maria, capace di regalarmi ogni volta che la vedo più d’un sorriso, anche se il dentista le ha levato un dente ed io penso, però, non è certo il modo migliore d’iniziare l’anno, ma lei arriva in segreteria e col suo bel romanesco mi dice: “Embè? Basta che me lo rimette, eh, ché io voglio magnà”.

Ed io, oh, quando se ne esce con certe frasi, non so se sorridere o abbracciarla, ché il suo spirito di bambina in quel corpo di nonna mi manda alle stelle, tra struggente tenerezza e vivace allegria.

Quel che è certo è che di persone come lei, pronte a dir quel che pensano ad alta voce, senza badare a chi, di fianco, scuote il capo intimidito e vorrebbe metterla a tacere, ce ne vorrebbero decisamente di più. Anche perché le cose che dice son cose belle, de’ core… capaci di rallegrarmi l’anima all’istante, come l’altro giorno, quando si è voluta assicurare che io avessi trascorso un buon capodanno, ché chi comincia, si sa, è a metà dell’opera e a quanto pare è così anche a Trastevere, dove è nata.

“E lei – m’ha detto (perché Anna Maria mi da del lei anche se ho meno della metà dei suoi anni) – dove è stata a Capodanno?”.
“Son stata vicina, Anna Maria – ho risposto – Sono stata a Firenze”.
“Ah…”, ha fatto come delusa, quasi dispiaciuta.
“Ma son stata bene comunque, eh”, l’ho rassicurata.
Allora l’ho vista tornare a illuminarsi: “Era col fidanzato?”.
“Eh sì”, le ho sorriso, sapendo che avrei destato in lei più d’una curiosità, visto che ogni volta mi chiede se mi son sposata, ché a detta sua l’amore mi fa proprio bene, mi ringiovanisce.
E infatti m’ha sorriso: “Ed è rimasto con lei fino alla mattina dopo?”.
“Certo, eh, anche quella dopo, e quella dopo ancora…”.
Allora sì che ha sorriso, ché ai suoi tempi una roba del genere se non si era sposati non la potevi mica fare. “Te possino!“, m’ha detto divertita e dopo avermi salutato se n’è andata via, radiosa, lasciando dietro sé un’allegria che m’ha accompagnato per quasi tutto il giorno.


Già, perché se c’è una cosa che mi son ripromessa di fare in questo 2020 è di tenere ben strette le cose belle che mi capitano. Quindi grazie, Anna Maria, per avermi regalato una manciata di sorrisi ed aver dato al nuovo anno un bell’inizio friccicarello.

il Venerdì _ 41

Detto tra noi, questi primi giorni del nuovo anno, a lavoro, son stati d’un tranquillo, ma d’un tranquillo, che più ci penso, più mi dico che un tranquillo così… be’, non poteva non destare qualche sospetto.

Le persone che son passate in studio, infatti, erano tutte sorridenti, fin troppo ragionevoli, oserei dire quasi rilassate e nonostante il freddo di questi giorni, spogliate della fretta che di solito ci portiamo dietro e che costringe a brevi scambi di battute fatti di nuca, ché chissà come, oh, il tempo di guardarsi negli occhi manca sempre un po’ a tutti.

Insomma, ero incredula: una tale quiete, i sorrisi, Luigi che arriva in studio con un bel pandoro per noi, senza condirlo dei se e ma a cui, ahimè, in questi anni ci ha un po’ abituati. Con lui è sempre bastone e carota, eh, fosse mai che tiriamo un sospiro di sollievo. Invece stavolta tutto tranquillo. Fin troppo, appunto, tanto che mi son detta, Che strano, vuoi vedere che il Natale a ‘sto giro è veramente riuscito a darci la pace di cui avevamo bisogno?

Poi, però, a un tratto è squillato il telefono.
“Poliambulatorio buongiorno”.
“Ehm, senta, buongiorno – ha detto una voce di uomo con fare un po’ sbrigativo – avrei bisogno di parlare con il medico di base. È una cosa urgente”.
“Guardi – ho detto io – oggi la dottoressa C. non è in studio, al suo posto c’è la sostituta, che può comunque visitarla. Noi però non possiamo passargliela al telefono, ma può venire in studio e attendere il suo turno”.
“Si ma quindi… come funziona, c’è altra gente prima? Bisogna mettersi in fila?”.
“Be’, si… ci sono i pazienti che hanno appuntamento ed altri che aspettano delle ricette, ma se la sua è una cosa urgente di sicuro l’accoglierà tra un paziente e l’altro”.
“Mmm…”.

“Senta – ha ripreso poi convinto – ma la dottoressa C. quando torna?”
“Lei ci sarà mercoledì, ma nel mezzo ci sono il fine settimana, l’Epifania… Come le ho detto, la sostituta oggi la vede più che volentieri. C’è solo da mettersi in fi…”.
“Ma no, dai – ha fatto d’un tratto – vengo mercoledì”.
“Ma la sua non era un’em…”.
“Alla fine non è così urgente, dai. Si, facciamo mercoledì. Arrivederci”. Tutto da solo, eh, per poi buttar giù.
Ed io son rimasta lì, non so dirvi se più arresa o sollevata, ché per carità, benissimo un mondo migliore, fatto di gente migliore, ma non so mica se l’avrei retto un cambiamento così netto tutto in una volta.

Ci sarà, quindi, ancora un bel po’ da correre, da chiudere le orecchie, far profondi respiri e da sperare che quelli capaci di spazientirti a tal punto da levartele di bocca e di mano, be’, non siano la maggioranza.
Nel frattempo mi son goduta qualche ora d’illusione, credendo che il Natale ci avesse resi più buoni e l’anno nuovo fosse finalmente riuscito a portare un po’ di pace, in Terra, nei cuori e nei cervelli (si, perché credetemi, c’è un gran bisogno anche di questo).

E quindi niente, anche questo anno, sarà per il prossimo.
Buon 2020 a tutti… E che la forza sia con voi!!

il Venerdì _ 40

Al solito, qua dentro, i giorni che precedono il Natale son fatti d’improvvisi mal di denti, salti di nervi e corse contro il tempo.
Già, perché questo è il momento in cui i più realizzano che anche questo anno avrà una fine – ma va? – e guarda un po’, ‘sta fine è ormai alle porte. Così, c’è chi pretende di fare in una manciata di giorni tutto quello che ha rimandato nei precedenti 365.

Da quel che vedo in giro mi par di capire che le cose vanno in questo modo un po’ dappertutto, anche se, va detto, col dentista c’è chi dà il meglio di sé: igiene, otturazioni, magari qualche capsula… insomma, chi più ne ha più ne metta, ché così, dicono, scarico tutte le spese nell’anno.

Un ragionamento che non fa una piega, per carità, se non fosse che gli appuntamenti a disposizione, cari miei, son quelli che sono, avoglia a far pigia pigia in agenda. E allora giù, a far salti mortali, a dar spiegazioni… Solo che alla lunga, tentare di ostacolare ‘sto flusso inarrestabile di richieste last minute non paga mica tanto, sapete, ché arrivi a sera dopo otto ore al computer e ti par d’esser stata una giornata in cantiere e allora non resta che assecondarlo il flusso. In questi giorni, poi, che a tirar su mente e corpo son arrivati in studio pandori, panettoni… noi ne approfittiamo, eh, ché tuffarsi in certi flussi ha il suo bel dispendio di energie.
Così, tra un pezzo di pandoro e uno di panettone, per riprendere fiato, torniamo a tuffarci, splash, assecondando la corrente a cuor leggero, diretti chissà dove, certi solo d’una cosa: la fine dell’anno prima o poi arriverà. E visto il momento, be’, mi sembra giusto dire più prima che poi.

Ma non facciamone una tragedia, eh, ché tanto, un conto alla rovescia, qualche tappo di spumante per aria, e sbam, eccone subito un altro, che stavolta si chiamerà 2020.

2020: un numero che non riesco ancora a capire se mi sta simpatico o no.
Immagino che per scoprirlo dovrò fare come nella canzone: viverlo. Ma se intanto volete un’anticipazione di quel che sarà per voi il nuovo anno, fate come me, ché ieri, a lavoro, in un attimo di pausa e di telefono silente, ho lasciato che la mia attenzione cadesse sulla frase “Le prime tre parole che vedi segneranno il tuo 2020” e senza troppo pensarci mi son tuffata. Si, solo che stavolta mica nell’agenda, bensì in un quadrato di lettere. E così, nell’ordine, son saltate fuori:

Peace
Love
Pizza

…che dire caro il mio 2020?
Alla grande!!

il Venerdì _ 39

Avrei tante cose da dire sulla settimana che si è appena conclusa, ahhh se ne avrei, ma più penso a quelle cose più mi vien da chiedermi, ma ‘sto lavoro non mi starà portando via già troppo tempo, attenzioni, energie… per star qui a pensarci anche adesso che è venerdì e finalmente sono libera?

La risposta non può che essere una: SI. Un si convinto, eh, che mi porta a pensare che dovrei pormi dei limiti e chissà, forse porne anche agli altri, ché in giro c’è gente che pensa che tu sia lì a disposizione h 24, un po’ come la paziente con cui ho avuto a che fare lunedì.

Ero in studio da si e no cinque minuti, pronta a dare il primo appuntamento di quella lunga giornata.
La vedo, lei mi sorride. Io faccio lo stesso, poi mi tuffo nell’agenda e le chiedo: Martedì 24 dicembre alle ore undici. Può andare?
Lei mi guarda, sembra pensarci un attimo, da sola e in silenzio. Io mi dico, be’, starà valutando, del resto è pur sempre la vigilia di Natale, giorno di ultimi regali, lunghe code in cassa ai supermercati, preparativi last minute… E invece, a un tratto apre bocca e chiede seria: Ma le undici, intendi di mattina o di sera?


Faccio in modo che niente di ciò che mi frulla in testa mi esca di bocca. Tengo a bada tutti i muscoli che ho in faccia, del resto, son di sicuro i più allenati che ho in corpo. E così, quel Ma che diavolo sta dicendo? me lo tengo per me.

Ché poi, lo sanno tutti, Natale è con i tuoi e mai come quest’anno desidero che sia così. Per darsi respiro, prendere un po’ d’aria, meglio ancora se fredda come quella di questi giorni, che tonifica, purifica e chi più ne ha più ne metta.

Per fortuna, però, per quanto le situazioni ti portino a sentirti sballottata, presa a sberle, data per scontata, se guardi bene la vita trova sempre il modo di tenderti una mano, dantoti così un motivo per non cedere allo sconforto.

Questa settimana la mano è stata quella del signor Giuseppe. Ottant’anni e una voglia di chiacchierare che metà basterebbe. Un uomo così caro, così di cuore, che m’ha preso così in simpatia che ogni volta che viene in studio pretende sia io ad occuparmi dei suoi appuntamenti, del suo pagamento…
Perché sei forte, mi dice, e se la ride. Le mani piene di nodi ed un sorriso di chi ha ancora voglia di vivere, anche quando, come l’altro giorno, s’è messo a parlare della moglie che non c’è più e gli occhi gli si son riempiti di lacrime.
Cazzo, un attimo ed è venuto da piangere anche a me. Ma i muscoli che ho in faccia son forti, ve l’ho detto, allora mi son trattenuta, ma avrei tanto voluto abbracciarlo, ché se solo penso ad una simile perdita, io, mi sento crollare il mondo addosso in un attimo.

Mentre lui si asciuga le lacrime, il massimo che riesco a fare è portare una mano sul suo braccio e dire qualcosa che non ricordo, qualcosa di stupido, di sicuro banale, però funziona, perché alla fine torna a sorridere.

Grazie, mi dice, perché di questo tempi il mondo non mi sembra mica andare tanto bene, sai, e trovare qualcuno che ti parla, ti ascolta… forte tu’sei! E giù di nuovo a ridere.
Si fruga in tasca e tira fuori due euro: Con questi prenditi un caffè.
No via Giuseppe, non importa, dico io.

Oh su, insiste, ci fai colazione.
Ma davvero io…
Non fare la bischera!

Allora li prendo, va, non vorrei s’alterasse e poi lo saluto, ché intanto squillano tre telefoni, un campanello, i pazienti si mettono in coda… Ma non lo perdo d’occhio e mentre le vedo andar via, un passo alla volta, un po’ ripiegato su se stesso dagli anni, penso, ma che roba bella è aver gente così in questo mondo, che in un attimo riesce inaspettatamente a chiudere in bellezza una settimana d’interrogativi, dubbi… Facendoti intendere che forse, qualcosa di buono, in questo casino che è la vita, be’, lo stai facendo eccome.