Tutto in questo mondo va a periodi: la moda, le tendenze musicali, il modo in cui si portano i capelli… persino le parole che si usano.
Negli ultimi anni, ad esempio, complice la pandemia si son fatte largo nel linguaggio comune le parole resilienza ed empatia.
Due parole di cui, a mio avviso, la maggior parte della gente fino al marzo 2020 nemmeno conosceva l’esistenza, ma dopo quanto accaduto, chissà come, sembra che ognuno abbia subito una trasformazione grazie alla quale ci sentiamo tutti resilienti e soprattutto mooooolto empatici.
Sarà che col lavoro che faccio, per me la resilienza è pane quotidiano da tempi non sospetti. Proprio come l’empatia. Vuoi mettere avere a che fare ogni giorno con decine e decine di pazienti alle prese con orari da far tornare, lamentele, richieste di sconto, consigli (non richiesti) su come fare il mio lavoro da chi nella vita fa tutt’altro… E così, va da sé che quando mi capita di sentire una di queste due parole vengo subito colta da un moto interiore di repulsione.
Per carità, la colpa non è certo la loro, di quel susseguirsi inconsapevole di lettere. Bensì di chi se ne riempie la bocca, privandole nella pratica di tutto il loro prezioso significato.
A tal proposito, il luogo in cui lavoro è un punto d’osservazione perfetto. Grazie al quale, dopo anni e anni di attenta analisi, posso permettermi di dire che pochi di quelli chi si ritengono empatici lo sono veramente.
Pendiamo quanto accaduto l’altro giorno, ad esempio.
È un pomeriggio come tanti quando si presenta in studio un ragazzino accompagnato dal babbo. La visita – della durata programmata di 30 minuti – è volta a controllare l’andamento della terapia ortodontica fissa. E fin qui niente di strano, siamo dal dentista. Se non fosse che il ragazzino in questione si presenta non solo con 2/3 attacchi staccati – il che implica un tempo maggiore per sistemare la cosa -, ma anche con i denti talmente ricoperti di tartaro per la scarsa igiene da costringere la dottoressa a ripulire il tutto per poter intervenire sull’apparecchio.
Il risultato, inevitabile, è stato che l’appuntamento invece di 30 minuti ne è durati 75, con un conseguente ritardo a pioggia sui pazienti successivi.
Cose che capitano, penserà qualcuno, del resto dai medici funziona così. E in effetti è vero. Scoccia dirlo, ma quando si ha a che fare con i medici spesso le cose vanno così. Ma in fondo è anche vero che è una ruota che gira, e se una volta tocca a te aspettare la volta successiva ad aspettare sarà un altro. E avanti all’infinito.
Pensate infatti che l’ultima volta che questo ragazzino era venuto in studio, era toccato a lui aspettare. Ma evidentemente, il babbo, non conoscendo la sopracitata regola della circolarità, allora non aveva perso tempo ad assalire la segreteria con lamentele e pretese di puntualità.
Stavolta, invece, i genitori degli altri si solo avvicinati gentilmente per chiederci cosa stesse accadendo visto tutto quel ritardo.
“La dottoressa ha avuto un imprevisto, ma ha quasi finito”, abbiamo detto. Perché se una cosa l’abbiamo imparata è che la verità, talvolta, da queste parti va tenuta nascosta. Soprattutto se c’è il rischio che in sala d’attesa gli animi si scaldino. Meglio che non si sappia in giro che il ritardo è dovuto a un paziente che si è presentato con la bocca a pezzi senza avvisare, costringendo la dottoressa ad un lavoro di 75 minuti invece di 30. Insomma… meglio per lui che non si sappia.
E infatti anche quel giorno noi non l’abbiamo detto a nessuno. E neanche il babbo, mentre aspettava il figlio in sala d’attesa sempre più gremita di pazienti, ha proferito parola. Se n’è stato zitto, dando l’impressione di aver finalmente capito che certe cose possono capitare. A chiunque, persino a tuo figlio. E se l’altra volta hai atteso, stavolta sei tu che stai facendo attendere gli altri.
Non nego che il silenzio defilato di quell’uomo ha infuso in noi segretarie più d’una speranza. Perché un paziente che prende coscienza della condizione dell’altro o del suo stato d’animo – sia esso un collega, un dottore o un altro paziente – è sempre un gran successo. Ma la nostra speranza ha avuto vita molto breve e infatti si è frantumata nello stesso istante in cui il ragazzino, finita la seduta, è riapparso in sala d’attesa.
Non appena l’ha visto il babbo è balzato in piedi, l’ha preso per la mano e, senza neanche accennare un saluto ai presenti, è uscito di corsa pronunciando un risentito “Mai più e mai poi”.
E noi siamo rimaste lì, senza parole, alla faccia dell’empatia, sai!