E così, alla fine la voce è tornata. Tre giorni di assenza sono stati sufficienti ad impartire la lezione. Immagino pensasse questo, quando a forza di Brufen e tè caldo, un po’ alla volta è tornata a farsi sentire.
Adesso che siamo di nuovo insieme, lo ammetto, la sua mancanza un po’ mi manca. Se ci penso, infatti, non era poi così male avere una scusa per starmene zitta, evitando così di dover parlare a vanvera.
Già, perché a forza d’avere a che fare con gli altri, a volte si finisce per buttar lì parole a caso, quando invece le parole andrebbero usate con cura, attenzione. Ché non sembra ma son cose importanti, le parole.
Avrei dovuto dirglielo ieri al signor Maurizio, che ogni volta che viene in studio attacca a parlare quasi come se ci conoscessimo da una vita, io e lui. Cammina su e giù davanti al banco della segreteria, a suon di battute, domande…
Ieri, ad esempio, ce l’aveva con la mia tosse.
– È il fumo, ha detto.
– No guardi, veramente io, mai fumato.
– Allora l’è quello degli altri.
Ehm… no, a dire il vero non è manco quello, ma vaglielo a spiegare al signor Maurizio, che sebbene pensi di conoscermi, in realtà non mi conosce affatto. Così annuisco e lo faccio in silenzio, ché ho da risparmiare fiato e parole, appunto.
Preferisco conservarle per altri, infatti. Per Giancarlo, ad esempio, col quale starei a parlare per ore, dei nostri viaggi, del teatro… a fantasticare, a far scorta d’ossigeno.
Ma ahimè, in un lavoro come il mio non si può scegliere con chi avere a che fare. L’umanità è talmente variegata e credetemi se vi dico che qua dentro non ce ne facciamo mancare neanche una briciola. Così, può capitare di avere a che fare con la paziente che chiama per un’emergenza. Le dici di venire alle 11 perché prima il dottore non ha assolutamente modo di visitarla, ma lei fa finta di niente. Bene, risponde, allora alle 9.30 sono lì. Tanto, mica disturbo, mi metto buona in sala d’attesa… che io mi mordo le labbra per riuscire a star zitta, mentre penso che in fondo, si, meglio stare zitta, tanto con una così cosa diavolo parlo a fare?
Capita poi l’adolescente svogliato, che lo prenderesti a schiaffi una volta si e l’altra pure, ché quando entra in studio non alza manco la testa per salutare, intento com’è a spippolare col suo smartphone. È un attimo e penso, però, carini i giovani di oggi… e intanto mi sale un brivido lungo la schiena. Ad acquietarmi è l’arrivo del babbo, mai visto prima, ma per il quale provo istintivamente una certa solidarietà. Non dev’essere mica facile aver a che fare con quel soggettino lì. Poi però quell’uomo apre bocca: Senti, dice, oggi e’un posso pagare, ‘unn’ho preso manco i’portafoglio.
Buonasera, scusate, grazie… parole sconosciute, non pervenute.
E lì, torno sui miei passi e d’un tratto mi sento vicina a quel ragazzo e a tutti i giovani come lui, cresciuti da genitori che a stento mettono insieme una manciata di parole e quando lo fanno, chissà perché, dimenticano di usare quelle giuste.
Mi balza in testa la Mau, che di figli ne ha tre e ogni giorno si da un gran da fare, anche per insegnare loro le parole giuste. In questi undici anni di lavoro assieme, di cose ne ha insegnate parecchie anche me, ma ce n’è una che supera di gran lunga le altre ed è che il lupo, cari miei, e’un caha mai agnelli.