il Venerdì _ 03

Da che mondo è mondo il Natale è tempo di famiglia, di casa. Un tempo prezioso di raccoglimento e condivisione, che per qualcuno, ahimè, dura un po’ più degli altri. Dico ahimè perché io non sono tra quei fortunati.

Stamani il signor Carlo mi ha chiesto cosa ci facevo a lavoro. Invece di essere nei mari del Sud, ha detto. Bella domanda, caro mio. Be’, sono certa che prima o poi arriveranno anche quelli, i caldi mari del Sud, ma intanto quest’anno il mio Natale è durato il minimo sindacale. Tre giorni e via, una pedata in culo e di nuovo in ufficio. Del resto, cosa posso pretendere? Mica ho il marito in ferie o dei figli che mi trattengono a casa, io.

Chiariamoci, di persone care là fuori ne ho diverse anch’io, come diverse sono le occasioni di ferie durante l’anno, ma in certi periodi, si sa, esistono delle priorità. E così, durante le feste, noi trentenni smaritate e senza prole ci ritroviamo a godere delle famiglie degli altri.

La cosa tutto sommato non è poi così male. Se potessi scegliere me ne starei volentieri altrove, ovvio, ma anche qui in studio c’è di che divertirsi. Ci sono padri che accompagnano i figli. Mariti e mogli, che arrivano insieme sorridenti. Nipoti pestiferi inseguiti da nonni sfiancati. E poi ci sono loro, che non è un loro generico, ma un loro ‘loro’: quella madre e quella figlia che ieri pomeriggio si sono poggiate al banco della segreteria.

Per quella adolescente svogliata ho tirato fuori un preventivo pieno di otturazioni, che più che un preventivo alla fine sembrava un campo minato. Lei, lì ad osservarmi, lunghi capelli castani e un bel che cazzo vuole ‘sta stronza stampato sul viso. Anche niente, guarda, ma vaglielo un po’ a spiegare che se sono lì è solo per lavoro. Vabbe’…

Quando non mi guarda in cagnesco, ridacchia assieme allo spilungone che le sta di fianco, che la bacia e le sta così addosso, ma così addosso, che dico io, anche meno ragazzi va bene lo stesso. Mica per me, eh, quanto per quella povera donna che se ne sta lì accanto in silenzio, ma è chiaro che se potesse parlare avrebbe di che dire a entrambi.

Cosa ridi?
È l’unica cosa che riesce a buttar fuori. Il minimo, visto quello che ha appena scoperto di dover pagare per i denti della figlia. Ma la ragazza non fa una piega, si scosta giusto un attimo dallo spilungone e le lancia lì un bel Ma non mi rompere il cazzo!
Ah però… hai capito la sedicenne?!

Non faccio in tempo a riprendermi da questa sberla, che la donna si avvicina alla figlia e con un filo di voce le dice Stronza.
Ma la figlia continua a ridere, così la donna ribadisce. Stronza, dice e lo dice un altro paio di volte. Giusto per essere sicura che il messaggio arrivi a destinazione, ché con tutti ‘sti francesismi sia mai che la ragazza stenti a capire.

Il silenzio che segue è imbarazzante. Non tanto per loro, quanto per me, che nonostante gli sforzi non riesco proprio a cogliere il senso di famiglia, l’amore che vibra nell’aria, il Natale con cui tutti si riempiono volentieri la bocca, le lucine, i panettoni… ma del resto, cosa diavolo ne posso sapere io?

È che il mondo va avanti, ecco cosa, mentre io temo d’essere rimasta un po’ indietro, e per riuscire a coglierlo, l’amore dev’essere come quello dei vecchi tempi. Quello che si trovava nei piccoli gesti, nelle parole gentili. Quello del signore dell’altro giorno, ad esempio. Cappello da marinaio e barba ingiallita dal fumo. Aspetto un po’ rude, ma lo sguardo era di quelli buoni. Al suo fianco, la figlia di quarant’anni, che dopo essersi un po’ trascurata ha deciso di rimettersi in pista.
Il babbo le fa da supporto, ricorda gli appuntamenti, la spinge a far le cure. Gnamo, ormai che siamo qui, dice, oh falla! E in un gesto dolce e sicuro, le sistema la sciarpa che sta per cadere.
Che aiutante prezioso, mi son permessa di dirle. Ehhh! Ha sorriso lei. Lo stesso ha fatto lui: Che vuoi, ha detto poi, a me mi sembra l’abbia sempre dieci anni. Mi pare d’accompagnalla a scuola.

E l’ha detto in un modo, ma in un modo, che in un attimo l’aria intorno si è inzuppata di tenerezza. Ed io, be’, sarà stato il Natale, le lucine, forse il panettone, ma mi ci son tuffata proprio volentieri.
Splash e via, alla faccia del mondo che va avanti!

il Venerdì _ 02

Ancora quattro giorni e sarà Natale, finalmente.
Non l’attendevo così dai tempi in cui con mio fratello ci svegliavamo all’alba per correre in salotto e vedere cosa ci aveva portato Babbo Natale.

Adesso che sono grande non mi aspetto regali, ma soltanto che i telefoni al poliambulatorio smettano di squillare per un po’ e che il campanello faccia lo stesso.
Sogno una tregua, uno stop.

Ma fino ad allora c’è da darsi un gran da fare. Ci sono i conti da chiudere, le scadenze del fine anno. C’è da correre, insomma, ed io che di tempo per andare in palestra non ne ho, be’, ne approfitto e corro in ufficio, sebbene il più delle volte finisca per farlo sul posto, ché la superficie a Risana è quella che è.

Anche correre sul posto però è una gran fatica. Saltare da una cosa all’altra, il più delle volte da una persona all’altra.
Ieri ho saltato così tanto che a sera facevo fatica a reggermi in piedi. Così, quando la mia collega mi ha detto Mi chiedo cosa ci fai qui, in questo caos, tu che dovresti scrivere, trovare la tua dimensione…, ho temuto davvero di far cencio e cadere per terra. SBAM!

Invece sono rimasta in piedi, col desiderio di tornare d’un botto a quando avevo vent’anni. Non per far scelte diverse o rivedere i miei piani, sia chiaro, ma per sentirmi come quando il sabato sera, con gli amici, partivamo in banda per andare alla Flog. La musica rock nelle orecchie, un Negroni in mano e la mente sgombra delle sovrastrutture in cui mi sarei imbattuta negli anni a venire.

Chi se lo poteva immaginare, allora, che un giorno mi sarei ritrovata a dover spiegare a qualcuno il perché del mio semplice lavoro di segretaria?
Son cose che a pensarci, oh, mi si annebbia il cervello.
Tre, due, uno: buio.

Pensare che al buio, questa settimana, ci sono rimasta davvero.
È stato un attimo e i fari della mia auto sono morti, andati. Senza avvisare, ovviamente, ché se una cosa deve accadere, si sa, accade all’improvviso e sempre a ridosso delle feste.
Be’, per fortuna c’ha pensato Elio, che poi sarebbe mio babbo. Io non so come faccia, ma quando gli chiedo una cosa, oh, un attimo dopo l’ha già fatta. E infatti si è presentato in studio con le chiavi della mia auto in mano e un sorriso stampato in viso. Fatto, ha detto, e se n’è andato.

A lui non ho mai dovuto spiegare perché, invece di ambire a chissà che posizione, son qui a fare la segretaria. Magari avrebbe preferito diventassi medico o avvocato, ma conoscendolo sono certa che sia contento anche così, con una figlia segretaria di giorno e scribacchina di notte. L’importante è essere svegli, ecco cosa direbbe.

Se amo ciò che faccio lo devo anche a lui, instancabile lavoratore. Quindi lo ringrazio, per l’esempio e per aver alleggerito con due lampadine nuove la mia settimana.

A pensarci bene, ad alleggerirla sono stati in diversi. Allora sarà che a Natale siamo tutti più buoni, o che a forza di buttar giù cioccolati, lo zucchero m’ha dato alla testa, ma li voglio ringraziare tutti. A partire da Diano per l’olio nuovo. Grazie, si. A lui e anche a Giovanni e Gloria, per il caffè di metà mattina; alla Mau per gli sforzi condivisi e a Teresa, che finalmente ha imparato ad alzare la voce. Daje!
Grazie ad Antonietta, per avermi parlato del suo pizzicore al cuore nell’attesa che arrivi il primo nipotino, e a Piero, che ha chiamato stamani solo per fare gli auguri. A Vanna, Marcello e agli altri, per tutti i dolciumi… seguiranno chili in più e carie, ma chissene!

Un grazie lo devo anche alle mie amiche, che nonostante la mia stanchezza hanno comunque provato a portarmi fuori infra settimana; e a mio fratello, per aver condiviso con me il suo 30 all’esame di storia. Concludo con un grazie speciale, che non potrebbe non andare a Francesco e al suo <Ceniamo insieme stasera?>

Potrei ambire a qualcosa di meglio, certo, ma tutto sommato, anche così, la vita non è affatto male.

E ora, be’, non mi resta che augurarvi buon Natale!

il Venerdì _ 01

Il Natale è alle porte.
A ricordarmelo sono le luci colorate del piccolo albero in sala d’attesa, assieme alla playlist di Spotify, che da qualche giorno non fa altro che rimbalzare da Jingle Bell Rock a Last Christmas. Passando ovviamente da Let It snow! Let It snow! Let It snow!, che a forza di insistere, oh, è andata a finire che la neve è arrivata sul serio.

Per il resto, questo Natale mi sembra ancora un miraggio.
Lontano. A tratti irraggiungibile.
Mi piacerebbe poter dire di sentirlo nell’aria, nel profumo di pungitopo o in quello di un panettone appena uscito dal forno, ma ahimè, il più delle volte la realtà non è affatto all’altezza delle aspettative. E così, il Natale tocca coglierlo nel telefono che squilla senza tregua e nei miei passi svelti, ma così svelti, che se ci penso, quasi quasi l’anno prossimo mi candido come aiutante di Babbo Natale.

Ma ora basta lamentarsi! Ché il lamento, si sa, spegne il cervello, mentre invece il cervello andrebbe tenuto sempre ben acceso, soprattutto in periodi come questo, di temperature sotto zero e sistema immunitario che vacilla.

Tenersi su, ecco cosa bisogna fare.
Lo sa bene Eraldo, che l’altro giorno è passato allo studio per portarci una scatola di cioccolatini. Lo stesso ha fatto la Lia. Tieni chicca, ha detto, ché ne avete bisogno. E io lì, sorridente, a chiedermi, ma si vede così tanto? Chissà se il peso di questi giorni mi si legge più in viso o nei capelli arruffati?

È che la vita va combattuta.
Me l’ha detto l’altro giorno un paziente, e visto l’andazzo, be’, non posso che dargli ragione.
Una lotta continua, a tratti estenuante. Ma non c’è da temere, ché le forze per poterla affrontare ce le abbiamo. Ci sono state date, ha detto lui, e l’ha detto guardando con fiducia all’insù, nell’alto dei cieli, mentre il mio sguardo si andava a rifugiare tra i cioccolatini.

Che dire? Ognuno trova le forze dove crede.
E poco importa se le mie gambe non sono più scattanti come una volta, se gli addominali mi hanno detto addio e son partiti per un viaggio di sola andata. L’animo resiste agli scossoni e le spalle sono belle larghe. Anche se, a forza di combattere a suon di cioccolata, ho come il sospetto che presto il mio sedere farà la stessa fine delle spalle…

Ma del resto, cosa ci posso fare?
La dobbiamo combattere o no ‘sta vita!?

Buoni propositi

Cinque giorni, sei ore e 37 minuti.
Sono ben cinque giorni, sei ore e 37 minuti che Eloisa non butta giù un goccio d’alcol.
Mentre se ne sta distesa sul letto, i secondi continuano a scorrere e tra qualche secondo saranno cinque giorni, sei ore e 38 minuti. Poi passeranno altri secondi, i minuti aumenteranno e lo stesso accadrà alle ore e ai giorni. Sempre che Eloisa tenga fede al suo proposito.

Sonia smetterà di darla sempre vinta a sua figlia. È questo che si è ripromessa di fare, che mica vuole una figlia viziata, lei. Allora martedì sera,all’aperitivo, se n’è venuta fuori con questa storia:
– Ragazze da domani la voglio smettere. Sì, la voglio smettere di darla sempre vinta a quella peste di mia figlia – e mentre lo diceva agitava in aria il bicchiere, lasciando cadere qua e là gocce di spritz.
– Che storia è questa? – le ha chiesto Marina.
– Ma quale storia e storia? – l’ha interrotta Sonia – Questo è un proposito serio, ne va del futuro di mia figlia e io, beh, voglio tener fede a questo proposito –
– Se è per questo anch’io ne ho uno – ha detto allora Marina.
– Di cosa? –
– Di proposito. Bisogna sempre averne uno, no? E il mio è di non interrompere più Paolo quando parla e di non dirgli di stare zitto quando se ne viene fuori con le sue stronzate sul calcio –
– Ma questi non sono due?- ha chiesto Eloisa.
– In effetti… Che dite,dovrei sceglierne uno? –
Dopo il secondo mojito la scelta di Marina era ricaduta sul secondo, il più difficile tra i due, perché lei il calcio non lo sopporta proprio. Lo considera,anzi, una sciagura, che peggio in vita sua non le poteva capitare. Se mai il suo matrimonio dovesse finire, Marina non ha alcun dubbio,sarà colpa di un fallo in aria non concesso e dell’ennesimo“Arbitro cornuto!”.Riuscire a stare zitta davanti agli sproloqui di Paolo sarà un’impresa, ma lei ci vuole comunque provare. Per amore si fa questo ed altro.
Eloisa invece l’amore l’ha dimenticato da un bel po’. Forse è per questo che prima di martedì non aveva alcun proposito. La storia con Sandro è finita da quasi un anno, e nel peggiore dei modi. Lui con un’altra, lei a pezzi. Una catastrofe. Per rimetterli insieme, quei pezzi, le ci erano voluti dei mesi. A suo modo era stato un proposito anche quello, rimettersi insieme. Uno di quei propositi che neanche te ne accorgi, barcolli, fai un passo avanti e due indietro, ma alla fine li porti a termine e ti ritrovi intera.

– E te Isa? – le ha chiesto Marina – Te che proposito hai? –
Eloisa era rimasta in silenzio. Un tempo le era saltato in mente di andare all’anagrafe e cambiare nome, ché a lei quel nome lì, Eloisa, pareva un po’ altisonante. Nessuno l’aveva mai chiamata così a parte sua mamma e forse se aveva sempre la testa tra le nuvole era anche a causa di quel nome. Isa le sembrava decisamente migliore. Essenziale, fresco, proprio come il gin tonic che stava buttando giù quando la domanda di Marina le aveva riportato alla mente quel periodo. Un sorso e un altro ancora, per poi ricordarsi che a fermarla, allora, era stato il dispiacere, quello che avrebbe arrecato a sua mamma quando le avrebbe detto che si era sbarazzata del nome che lei amava tanto. E così, addio proposito.
Da allora non se ne era posti altri e, anche martedì,aveva fatto scena muta.
– Quindi? – aveva chiesto Sonia.
– Quindi niente –
Era finita lì, avevano cambiato discorso. Ma Eloisa quel pensiero se l’era portato a casa e per l’intera notte non s’era data pace. Com’era possibile che lei, a trentaquattro anni, non avesse un proposito a cui mantener fede?Cristo santo! Come diavolo era possibile?

L’indomani si era alzata con gli occhi gonfi di sonno. Anche la pancia non scherzava, gonfia pure quella, sebbene ultimamente non mangiasse un granché. Beveva,quello sì. Del resto il lavoro la stava consumando e a fine giornata non c’era niente di meglio che dei buoni amici e un buon gin tonic. Solo che poi i gin tonic diventavano due, tre… E ora, quei gin tonic erano tutti lì, sulla sua pancia. Vi poggiò sopra le mani, davanti allo specchio, proprio come fanno le donne quando aspettano un bambino, che si guardano e ridono. Prima un lato, poi l’altro, poi ridono di nuovo. Mentre Eloisa, nella sua pancia, non ci trovava proprio niente da ridere.
Così, mentre si guardava allo specchio, le passò in mente che anche lei aveva il sacrosanto diritto d’avere un proposito. Niente a che vedere con un marito o dei figli. Al diavolo il marito e i figli! Eloisa voleva un proposito tutto suo, di quelli buoni, buoni sul serio, a cui tener fede solo per se stessa, che se c’era qualcuno per cui valeva davvero la pena darsi da fare, quella era senz’altro lei. Allora s’era detta: “Niente più alcol, bella mia”. Si era guardata allo specchio, prima un lato, poi l’altro, e aveva accennato un sorriso. “Niente più alcol”. E così era stato, negli ultimi cinque giorni, sei ore e 37 minuti.

Sono le dieci di sera quando il portone di casa sbatte. Eloisa se ne sta sul letto,sonnecchia. Un’altra giornata d’inferno a lavoro. Dopo la doccia s’è buttata sulle coperte ed è rimasta lì fino a quando il portone non ha sbattuto, costringendola ad aprire gli occhi. Alla TV c’è Russell Crowe, che più passano gli anni più si fa bello. Eloisa lo guarda in silenzio. Ha sete, ma mica d’acqua. Le ci vorrebbe un gin tonic. Solo che lei ha un proposito e ce l’ha da cinque giorni, sei ore e ormai 43 minuti. Non può venir meno al suo impegno, non adesso, non lo farebbe neppure se Russell Crowe le piombasse in camera in carne ed ossa con un bel gin tonic. O forse sì?
Smette di pensarci quando il telefono prende a squillare. È Nino. Lei non risponde. Sa già cosa vuole dirle: usciamo? Infatti un attimo dopo glielo scrive in un messaggio.<Usciamo?C’è anche Marina>.
Eloisa si alza dal letto, srotola l’asciugamano intorno alla testa e lascia che i capelli le cadano sulle spalle. Sono ancora umidi, freschi, come un sorso di gin tonic, quando prima di farselo scendere in gola se lo tiene un po’sulle labbra. No, non è il caso di uscire. Non stasera. Prende il telefono e avverte Nino.<Magari domani, oggi faccio passo>.

Intanto nel corridoio si sentono dei rumori. Porte che si aprono, scatoloni che cambiano di posto. Dev’essere una di quelle sere in cui Marisa, la padrona di casa, non riesce a dormire e si mette a fare ordine. Quella donna non è mica tutta rifinita, ma a Eloisa poco importa: per quanto paga d’affitto avere a che fare con i suoi sbalzi d’umore è un buon compromesso. Si chiude a chiave nei suoi venti metri quadri assieme a un libro e a Russell Crowe, e si rimette a letto. Butta giù qualche riga, mentre Russell, muto, continua a muoversi sullo schermo. Qualche riga ancora e poi di nuovo lui. Quel libro è davvero una noia infernale, tanto che buttar giù righe diventa sempre più difficile. Poi a un tratto suona il campanello. Eloisa sobbalza, mentre sente Marisa affrettarsi per aprire il portone: – È lui, Mauro, è senz’altro lui. È arrivato –
I passi svogliati dell’anziano marito seguono la donna nel corridoio.
– Piano – dice lui –o finirai per svegliare tutti! –
Ma lei niente, apre il portone e si lancia in un grido: – Oh Gin, che bello averti qua! Benarrivato Gin. Com’è andato il viaggio, eh Gin, com’è andato?-

Gin? Cosa diavolo…? Eloisa è incredula. Forse avrebbe fatto meglio a dare ascolto a Nino e a diminuire l’alcol un po’alla volta. – Un bicchiere ogni tanto che male vuoi che faccia? – aveva detto lui. Ma lei s’era intestardita e aveva detto basta tutto d’un botto. Il gin le sarebbe mancato, questo lo sapeva, ma non immaginava certo che un proposito potesse arrivare addirittura a darle le allucinazioni. D’un tratto le voci nel corridoio svaniscono, Eloisa si alza per aprire la finestra. Aria fresca, ecco di cosa ha bisogno, ché la mente quando ci si mette può giocare davvero dei brutti scherzi. Mentre ride di se stessa si lascia accarezzare dall’aria fresca della sera. Tutt’intorno è un gran silenzio, la città riesce anche a fermarsi di tanto in tanto. Non crede alle sue orecchie. Non ci crede neppure quando dalla stanza accanto, la voce della signora Marisa torna a farsi sentire. – Gin caro – dice la donna – sarai stanco,arrivare fin qua dal Giappone. Vieni, ti faccio vedere la tua stanza –
Forse l’aria non è abbastanza fresca. Eloisa scuote la testa per riaversi. Ma poi strizza gli occhi miopi nel buio e vede un ragazzo di spalle davanti ai due anziani. “Gin? Allora esiste davvero!” pensa. Non sa se essere felice o meno,certo però non vede l’ora di raccontare a Nino che dopo cinque giorni, sei ore e 53 minuti senza buttar giù un goccio d’alcol, si ritrova un Gin come vicino di stanza. Davvero un bello scherzo.
Sente dei passi nel corridoio. Corre alla porta, ci sbatte contro e si attacca allo spioncino. Un ragazzo le passa di fronte. Eccolo Gin. Ed ecco Marisa,tutta sorridente, che scivola sulle sue pattine fino a fermarsi proprio davanti alla sua stanza.
– È questa – dice la donna, mentre apre la porta di fronte – mettiti pure comodo, Gin, ci vediamo domani –
Il ragazzo fa un leggero inchino.
– Grazie. A domani – dice lui, in un italiano perfetto che stona con i suoi lineamenti orientali.
– Ah, questo – aggiunge lei prima di dileguarsi – ho pensato potesse farti piacere, visto che… beh… – e porge qualcosa al giovane.
Marisa chiude la porta e nel corridoio torna il silenzio. Gin resta sulla soglia, fermo, con in mano un pacco di riso che osserva interdetto. Marisa stavolta ha davvero superato se stessa. Un pacco di riso! Eloisa non crede ai suoi occhi. Vorrebbe tanto essere con Nino e Marina per riderne insieme. Invece è lì da sola, ma ride comunque, oltre la porta. Ride così forte che Gin alza la testa e in un passo si avvicina allo spioncino. Merda. Eloisa indietreggia. Si porta una mano alla bocca, soffoca il riso. Ma lui resta lì, si aggiusta il colletto della camicia, senza muoversi d’un passo. Allora lei avanza di nuovo, furtiva, e torna ad osservarlo.

Ha i capelli annodati in un codino sopra la testa e dei bei baffi. Occhi scuri che emergono da due fessure sopra gli zigomi e che son lì a guardarla senza vederla.Eloisa ci si perde. Si perde in quel volto sconosciuto, fresco,esattamente come un sorso di gin tonic che scorre in gola. Non ha mai provato un gin giapponese. Adire il vero non ne ha mai nemmeno sentito parlare. Chissà se lo fanno, il gin, in Giappone? Se lo chiede mentre Gin continua a fissarla immobile. Lei fa lo stesso. E più lo osserva, più sente aumentare la sua sete. Se avesse con sé un gin tonic lo butterebbe giù tutto d’un sorso, ma da cinque giorni, sei ore e 57 minuti ha un proposito a cui deve tener fede. Da stasera però ha anche un nuovo vicino e ora che se lo ritrova davanti, beh, non è niente male, tanto che butterebbe giù un sorso anche di lui.
Gin sorride, sembra quasi le abbia letto nel pensiero. Magari anche lui ha voglia di farsi un goccio. Potrebbero farselo insieme. Ma si allontana e raggiunge la sua stanza. Prima di chiudere, però, guarda un’ultima volta verso di lei, oltre lo spioncino, e alza la mano in segno di saluto, per poi svanire dietro la porta.

Eloisa resta immobile, a bocca asciutta. Adesso ha davvero una sete pazzesca. Sono cinque giorni, sette ore e 2 minuti che non butta giù un goccio d’alcol. Le resta comunque l’acqua, certo, ma vuoi mettere con un buon gin tonic a fine giornata. Indietreggia fino a ributtarsi sul letto. Russell Crowe è ancora in TV, muto come prima, ma tanto a uno così mica servono parole. Lo guarda, mentre intanto s’infila gli shorts, poi la canottiera. Lo guarda, sì,ma non lo vede. La sua mente infatti è oltre la porta, da quel Gin giapponese che se ne sta nella stanza di fronte alla sua.
Chissà se è più un Martin Miller o un Plymouth? I suoi occhi scuri danno l’idea di un sapore deciso, speziato. Eloisa prende il cellulare. Nessuna notizia di Nino. Neppure Marina si è fatta sentire. Saranno al pub a raccontarsi le solite storie, a buttar giù sorsi. Maledetti loro, che la sua gola è sempre più secca ed ha così voglia di un gin tonic che teme d’essere sul punto di buttare tutto all’aria. Invece no, stavolta è davvero decisa a tener duro, così d’un tratto si alza dal letto e spegne la TV. Nella dispensa tra le confezioni di pasta si nasconde un pacco di riso; lo prende e si fionda sulla porta. Quella che sta per fare è una cazzata, una cazzata enorme, Eloisa lo sa bene, ma sono cinque giorni, sette ore e 8 minuti che ha una tale sete che…“Al diavolo!”e si fionda nel corridoio.

La stanza di Gin è esattamente di fronte a lei. Eloisa fa un profondo respiro, si da un’aggiustata ai capelli e poi bussa, senza pensarci oltre. La portasi apre lentamente e dalla penombra affiora il volto del ragazzo.
– Ciao – dice lei. Lui resta immobile, la guarda in silenzio. Eloisa rimpiange di non essere andata con gli altri. Ora sì che le ci vorrebbe un gin tonic, con del vero gin e anche bello forte.
– Quello? – chiede lui indicando il pacco di riso.
– Ecco– dice lei – ho pensato potesse farti piacere –
Lo dice facendo il verso alla signora Marisa, ma lui resta serio. Osserva quel riso in silenzio, poi a un tratto torna a guardarla negli occhi. Stavolta però sorride e lo fa in un modo che a Eloisa torna in mente il gin tonic bevuto a Torino qualche mese prima. Di quella sera ricorda tutto, la piazza, il tavolino a cui sedeva, ricorda l’esatto sapore del gin e, mentre ricorda, i secondi continuano a passare, tanto che ormai sono cinque giorni, sette ore e 9 minuti che non butta giù un goccio d’alcol.

Difronte a lei c’è Gin, che non è mica un gin come gli altri, di quelli da bar a cui è abituata. Questo Gin è diverso. Eloisa lo pensa sul serio. Potrebbe infatti avere a che fare con lui senza per questo dire addio al suo proposito. Mica male, che stavolta è intenzionata ad andare fino in fondo.

Così sorride e allunga una mano: – Piacere, Isa –
– Gin –

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L’indiano

La sirena risuonò nella notte, scuotendo le pareti di cemento armato.
Senza nemmeno alzare lo sguardo gli operai mollarono gli strumenti. Fu un tonfo d’oggetti metallici, una sinfonia. Anche Pado Gonzalo vi prese parte. Nonostante non avesse ancora raggiunto i quaranta d’età, erano anni che lo faceva, così tanti da poter quasi ambire al ruolo di direttore d’orchestra, là dentro.
I musicisti in tuta blu raggiunsero l’uscita, una fila indiana di gambe strascicate e facce smunte. Timbratura del cartellino e via al coro dei saluti: A domani. Buonanotte. Bona merde! Qualcuno si fa un goccetto? Ma quale goccetto, vai a letto bischero!

Pado si appoggiò al cancello e tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca del bomber, osservando i colleghi allontanarsi di ritorno alle loro vite. – Hai da accendere? -, chiese Mattia. Un sì con la testa e poi finalmente una boccata d’ossigeno dopo la lunga notte in fabbrica.
– Com’è andata? -,domandò Mattia a mezza bocca tenendo salda con l’altra metà la sigaretta.
– Al solito, regolare. -Le parole di Pado non dicevano niente, ma era un niente che Mattia comprendeva alla perfezione, fatto di gesti ripetitivi, di grasso cheti s’incrosta alle mani e di un bonifico a fine mese. Un niente che per loro valeva un sacco.

Mattia dette un occhio al cellulare: – Cazzo, devo darmi una mossa. – Un ultimo energico tiro e gettò a terra la sigaretta.
– Aspetti visite? –
– Si. –
– La solita? –
– Si. –
– Sbaglio o la cosa si sta facendo seria? –
– Se una scopata ogni tanto si può definire una cosa seria… –
Pado sorrise: – Credimi, c’è più serietà in certe scopate che in tanti discorsi di mia moglie. – Mattia gli dette una pacca sulla spalla: – Buonanotte amico mio. –
Pado restò solo. La quiete della notte era rotta dal rumore della fabbrica alle sue spalle, che grazie al continuo avvicendarsi di nuove braccia non cessava mai la sua attività. Con qualche passo s’allontanò dal cancello e da quel rumore, che ormai confondeva con quello del cuore che gli batteva in petto.

C’era stato un tempo in cui aveva sognato d’aprire un ristorante messicano. Un piccolo pezzo della sua terra d’origine in quella d’adozione. Che gran figata, si era detto. E invece la vita gli si era messa di traverso. Con la morte del padre infatti, da ventenne ribelle quale era si era dovuto fare uomo. “A volte, caro ragazzo, è la vita a scegliere per noi”, aveva detto il capo officina davanti a quel giovane dalla mano tremante. Pado l’aveva guardato negli occhi, scorgendovi sua madre e i suoi fratelli, così aveva stretto la penna tra le dita e con una firma aveva appeso al chiodo il suo bel sogno.
Cazzo, erano passati quasi vent’anni da allora. Tanti. Troppi? Di sicuro abbastanza da non riuscir più a distinguere il suo odore da quello di un sogno marcito.
Si chiese, perché tornare a casa? Se avesse avuto una bella ragazza ad aspettarlo come Mattia, certo le cose sarebbero state diverse; ma il suo letto era già occupato da sua moglie Rosa. Decisamente meglio starne alla larga.
Che tipa strana, aveva pensato il giorno in cui si erano conosciuti. Avrebbe fatto bene a darsi ascolto, ma Pado non se ne dava mai abbastanza, così aveva finito per innamorarsene e sposarla. Un piccolo pezzo di donna con la paura del buio, tenera. Solo che quella paura le era un po’sfuggita di mano, tanto d’aver bisogno di compagnia nelle lunghe notti in cui il marito si assentava per lavoro.
Lui non si era accorto di niente. O aveva fatto l’indiano? Fatto sta che alla fine Rosa gli aveva pure chiesto il divorzio. E così, in attesa che lei trovasse una nuova sistemazione, a Pado non restava che il divano.
Se la vita a cui tornare era quella, beh, tanto valeva restarsene là fuori.

Camminò per qualche minuto, fino a un incrocio. La via a destra l’avrebbe condotto a casa, quindi svoltò a sinistra. Fece lo stesso altre due volte. La notte era la migliore amica che potesse avere, perché abbandonarla?
Al suo fianco il fiume scorreva lento. Si sedette nel buio ad osservarlo, sotto una luna pallida. Poco distante un’auto dai finestrini appannati sballottava. Finalmente un po’ d’amore. Poi, nel buio, dei passi. Pado non era certo un tipo impressionabile, ma si guardò intorno portando una mano al tagliaunghie nella tasca dei pantaloni. Un uomo comparve alle sue spalle. Un corpo minuto stretto in un elegante completo scuro e un sacchetto di plastica in mano.
-Posso? -, chiese facendo cenno di sedersi sulla panchina.
Pado si fece più in là e lui poté accomodarsi.
Si sarebbe aspettato qualche parola, ma seguì solo del silenzio. Allora Pado si voltò verso quel tipo dai lineamenti orientali e lo sguardo fisso sul fiume: -Tutto ok? –
L’uomo fece cenno di sì con la testa e tirò fuori dal sacchetto una birra:- Vuoi un goccio? –
-Volentieri, – buttò giù un sorso amaro e chiese – dì un po’,vieni qui spesso? –
-Tutte le sere. –
-E cosa fai? –
-Aspetto. –
-Devi aspettare qualcosa di molto importante se vieni qui ogni sera. –
Seguirono altro silenzio, altri sorsi di birra. La bottiglia passava di mano in mano. Pado dette un occhio, vide che era a fine. – Tranquillo, –disse l’uomo, – ne ho altre due. –
I fari dell’auto alle loro spalle li illuminarono. Fu un attimo, il motore s’accese e l’auto sfrecciò via in un gran frastuono.
-Sai che si dice dalle mie parti? – esordì l’uomo. – Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico. –
Pado si voltò verso di lui, deglutì preoccupato e buttò fuori la prima cazzata che gli passò per la testa: – Da dove vieni? –
– Dàlián, Cina –silenzio – E tu, dì un po’, sei uno di quei mezzi indiani d’America? –
Questa storia dell’indiano lo perseguitava da quando era un ragazzo. I suoi occhi in effetti erano un po’ allungati e gli zigomi sporgenti ricordavano quelli di un pellerossa, ma con gli indiani Pado non aveva mai avuto niente a che fare, se non per lo scalpo che gli aveva fatto la vita. La sua terra d’origine era il Messico, da lì proveniva il suo sangue, ma lui non era tipo da dar troppe spiegazioni. Che lo credessero pure un indiano.
Anche quella sera, in riva al fiume, non disse né sì né no. Si voltò e prese ad osservare lo scorrere incessante dell’acqua. “Chi è il fortunato che stiamo aspettando?”, chiese.
Per la prima volta l’uomo stacco gli occhi dal fiume e si voltò verso di lui: “Il mio capo – disse serio – lo aspetto da giorni”.
All’idea che da un momento all’altro potesse materializzarsi il cadavere di quell’uomo, Pado rabbrividì.
– Cos’ha fatto per meritarsi questo? –
– Mi ha rovinato la vita,ecco cosa – il tono si fece alterato. –Sono stato a disposizione dell’azienda ogni istante degli ultimi tre anni. Domeniche, notti, bastava una telefonata e io correvo in ufficio. Poi si sono fatti avanti nuovi soci, forze fresche, come le chiama lui, e per me non c’è stato più spazio. Così, da un giorno all’altro, mi ha gettato via come una carta sporca.-
Una pallina di carta sporca e consunta attraversò la mente di Pado. Accidenti se gli somigliava. Strizzato, consumato e poi gettato via, lo stesso che era accaduto a lui.
-Purtroppo non ho abbastanza coraggio per ucciderlo – riprese l’uomo, e Pado tirò un sospiro di sollievo, – né tanto meno soldi per fa fare il lavoro a qualcun altro. – Buttò giù un sorso di birra. – Ma il tempo certo non mi manca e sai una cosa? Quando arriverà quel momento io sarò qui a godermi lo spettacolo. –

La sua sete di vendetta strideva con l’elegante completo grigio che aveva indosso. Mentre il fiume continuava a scorrere davanti a loro, quell’uomo dava in pasto alla notte la sua rabbia. Un grido di ribellione che afferrò Pado per il collo, ma invece di soffocare lui ne rimase affascinato.
Chissà se dentro di sé aveva mai corso tutta quella vita?
Forse si, ma doveva essere accaduto un bel po’ di tempo addietro, tanto da essersene dimenticato.
Il suo sguardo si perse nel fiume. Uno specchio d’acqua scura in franto dal chiarore della luna. Poi, d’un tratto, qualcosa venne a galla. Un corpo. Non uno a caso, ma quello di Rosa. Cosa diavolo ci faceva lì? Gli mancò il fiato in gola. Chiuse gli occhi e quando li riaprì Rosa non c’era più. Al suo posto, l’uomo con cui l’aveva trovata a letto. Aguzzò la vista. Il corpo adesso era quello del capo officina. Continuò a galleggiare ancora un po’ davanti a lui, finché non svanì.
Pado si stropicciò gli occhi, guardò l’uomo che gli stava di fianco. Lo trovò impassibile, quindi tirò un sospiro di sollievo. I due rimasero in silenzio, fino a quando quell’uomo non gli passò la bottiglia: – E tu, chi aspetti? –
La domanda lo colse di sorpresa, la birra gli andò quasi di traverso.
-Nessuno – rispose Pado. Voce tesa e un’alzata di spalle come ad allontanare da sé ogni sospetto per gli omicidi appena commessi.
L’uomo si lasciò andare ad una risata: – Ma non dire cazzate! –, tracannò ciò che restava di quella birra e aggiunse – Aspettiamo tutti qualcuno – lo guardò dritto negli occhi, – Tutti. – E tornò ad osservare il fiume.

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Lettera a un tostapane

Caro mio, la vita è capace di farti fare cose che mai avresti immaginato. Penso a Lucio, la prossima settimana farà il suo primo lancio con il paracadute, o a Francesca che ha mandato a quel paese il capo ed è andata a Tokyo a lavorare per la concorrenza. Penso a loro, certo, e penso a me che a trent’anni mi ritrovo a scrivere al mio tostapane. Bizzarro, non credi? Ci sono un sacco di persone a cui avrei potuto scrivere e invece, per una volta che mi decido a prendere carta e penna, mi rivolgo a te. Meglio non farlo sapere in giro.

La sveglia è suonata alle 7.40 come ogni mattina. È domenica e detto tra noi avrei voluto dormire un po’ di più, ma mi sono buttata giù dal letto lo stesso. Ho raggiunto la finestra ad occhi chiusi e quando il mignolo del mio piede si è scontrato su di te, me ne son venuta fuori con il puntuale “Porca puttana!” di buongiorno.

Sono mesi che va avanti così tra noi. Dovrei trovarti una sistemazione migliore. Il pavimento non è il posto per un tostapane, lo so, ma tu non sei come gli altri. La prima volta che ci siamo incontrati era Natale. – Auguri amore mio – ha detto lui. Ho guardato con stupore la scatola che teneva in mano, grande e decorata a festa. Eri quello di cui avevo bisogno, in questo è sempre stato un asso. L’odore del pane caldo avrebbe finalmente accompagnato i miei risvegli.

L’indomani t’ho portato a casa mia. Avrei potuto darti un benvenuto migliore, invece ti ho messo ai piedi del letto in attesa che arrivasse una casa nuova, con un letto, un divano e una cucina per una vita a due. Ci sarebbe voluto qualche mese, ma ne sarebbe valsa la pena.

Di mesi ne sono passati dieci. Io sono ancora qui, lui a casa sua e tu ai piedi del mio letto. Sull’onda delle incomprensioni naufragano i migliori propositi, lo stesso è accaduto a noi. – Così non possiamo andare avanti – ci siamo detti. Siamo stati a fissarci in silenzio un bel po’, decisi a non perderci, e giorno dopo giorno ci siamo reinventati. “Amici” a quanto pare. Mi chiedo se sia stato davvero così o se, tutto sommato, non fossimo gli stessi di prima sotto mentite spoglie.

La giusta distanza per tornare a camminare ognuno sulle proprie gambe, non abbastanza per dirsi addio del tutto. Siamo andati avanti, certo, ma tra baci, carezze e la volontà di preservarci dal passare del tempo. Ho pensato spesso al giorno in cui non avrei più avuto sue notizie, né lui di me. L’ho temuto. Un po’ come si temono i fantasmi, mai abbastanza. Invece quel giorno è arrivato via sms: “Mi vedo con una”. Ho pensato, perché me lo dice così? Deve esserselo chiesto anche lui perché da allora non l’ho più sentito. È che la vita non ti aspetta. Chiunque tu sia, la gente va avanti e lo fa sul serio, mica come me che continuo a inciampare nel passato ogni mattina. Allora sai cosa, caro il mio tostapane, è giunta l’ora di uscire da questa maledetta scatola.

Doveva capitare, prima o poi, e questo è il giorno in cui il poi diventa realtà.
Il lo sono.

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Lettera a un cervello in fuga

Bologna, 27/07/2017

Caro mio, la vita non è altro che un susseguirsi di onde.
Basta osservare il flusso degli eventi per capirlo, per capire che quella in cui viviamo è una stagione di mare grosso, in cui i più navigano ormai a suon di biglietto di sola andata.

Negli ultimi mesi ho salutato molti marinai, pronti a salpare in cerca di un porto migliore di questo. Amici, colleghi, così detti ‘cervelli in fuga’. Sono meno in moto di loro, certo, ma spero davvero di non adagiarmi sulle parole e di non dimenticare mai le storie, i volti, le mani e le braccia che stanno dietro a quei cervelli. Decine, centinaia di braccia che ogni giorno sfidano il mare nel tentativo di intercettare la buona onda.

I marinai li riconosci da lontano: biglietto di sola andata in tasca e occhi che luccicano. Sono affascinanti, entusiasti e timorosi al tempo stesso, regalano sorrisi a denti stretti e abbracci che non finirebbero mai.

Oggi tocca a te, marinaio amico e fratello.
Sei pronto?
È una domanda stupida, lo so. Che ci vuoi fare? Le sorelle a volte sono così, stupide al punto giusto da perdere le parole. M’impegno a frugare tra i pensieri ma non trovo di meglio, così li metto a tacere e ti guardo allontanarti. Passo sicuro e spalle grosse, pronte a sostenere i tuoi sogni.
Un istante dopo svanisci oltre il gate.

Non sei ancora partito e già mi chiedo quando ci rivedremo. Che stupida! Mi rattristo all’idea che passeranno mesi, eppure non verso una lacrima. La tristezza mi prende allo stomaco, mi svuota. È come avere fame all’improvviso, ma è chiaro che mangiare non servirà a molto, certamente non a rimpiazzare quel pezzo di me che stai portando oltreoceano.

Eppure dovrei essere abituata. Ho consegnato pezzi di me in mani amiche e anch’io che resto qui a sorvegliare il porto ne ho piene le mani, di preziosi pezzi altrui. Li custodisco gelosamente e mi moltiplico con loro.

Ripenso a quando era bambina, una bambina felice e intera. Ti farà sorridere che mi definisca così, ma dopo il tuo arrivo intera non lo sono più stata. Con te ho appreso molte cose, in primis la suprema arte della divisione. Sei entrato nella mia esistenza a gamba tesa, prendendoti tutto: camera, giocattoli, attenzioni e anche una consistente parte del mio cuore. Avrò avuto si e no cinque anni quando l’ho capito. Mancava poco all’ora di cena e non so come, a un tratto ti ritrovasti con la testa incastrata tra lo schienale e il piano impagliato di una sedia. Ricordo il mio pianto disperato nel sentire la nonna dire: “Non si può mica rovinare la sedia, gli si taglierà la testa”.
Crescendo abbiamo avuto litigi, attraversato l’immancabile fase dell’indifferenza adolescenziale, ma oggi ringrazio il cielo che quella testa sia rimasta al suo posto.

Un aereo prende il volo, alzo lo sguardo.
E così te ne sei andato anche tu.
Lo dico ma non ci credo. Allora me lo ripeto, che se c’è qualcuno a cui devo credere quella sono io. Ma continuo a non prendermi sul serio. Sarà che sono passati solo pochi minuti, che ho lo stomaco pieno di buchi ma non mi sento sola. Fuori splende il sole e non riesco neanche ad essere triste, non quanto vorrei.
Allora sai che ti dico fratellino?
Avanti, tuffati!
La tua buona onda ti sta aspettando.

IRENE ROMANO

http://festivaldellelettere.it/vincitrice-2017/

Lettera a un cervello in fuga

15 ottobre 2017

E insomma, è andata così.

Mi sono svegliata alle 6.40, che era ancora buio. Doccia, vestiti, borsa e fuori, più spedita che con un calcio in culo.

È andata che mi son detta prendi un Ataf per una volta, che ti fai sempre i chilometri a piedi, che questo rifiuto della comodità inizia a renderti noiosa. Così è andata che ho preso l’Ataf.

E il biglietto? Alle 7.15 la città ancora dorme. Per lo meno la domenica, per lo meno la parte di città in cui vivo. Per fortuna, però, esistono gli sms, così è andata che ne ho inviato uno al 4880105 per il biglietto elettronico.
Ma ecco, è andata che non è andata, perché certi servizi funzionano solo per gli utenti dei gestori seri, mica come me che ho Postemobile. Ma è andata che io mica lo sapevo, l’ho scoperto che ero già sull’autobus, senza biglietto e con un’ansia che metà bastava.

E andava. Si, l’autobus andava, ma non abbastanza da impedire a quel tipo di salire e dire Biglietti prego.
Allora ecco com’è andata.

È andata che gli ho spiegato tutto: i bar chiusi, l’sms… ma lui non si è mosso di un millimetro. Un documento per favore. Va bene la patente? No, preferisce la carta d’identità scaduta. Contento lui.

Poco distante 2 rom iniziano a litigare con il suo collega. Le dispiace scendere che il collega è in difficoltà? Così scendiamo tutti, io, loro e i rom. Che allegra combriccola.

Ci mettiamo solo pochi minuti, dice.

A dire il vero avrei un treno da prendere. Ah, ferma un Ataf alle mie spalle e ci fiondiamo dentro. Addio collega, addio rom. È andata.

Buona giornata, mi dice alla stazione e mi consegna il verbale. 55€. Limortac… Buongiorno a lei.
È andata che la prossima volta me ne vado a piedi.

Salgo in treno, un attimo di quiete. Ma giusto un attimo, eh, che due infermiere attaccano a parlare: turni, riunioni, ma come è antipatico tizio? E caio?

Io leggo, ascolto la musica, mi rigiro, le maledico. Milano non è mai stata così lontana. Ma è andata che alla fine la raggiungo, assieme a 4 buoni amici, ché gli amici o son buoni o che ce li hai a fare?

Sono a Milano. Com’è che andata?
È andata che qualche mese fa un amico mi ha parlato di un festival, il Festival delle Lettere. Tema dell’anno: Lettera a un cervello in fuga.

Perché no?
Così ho scritto. Ho scritto al cervello più in fuga che conosco.
Mio fratello ha la testa sempre in fermento e due spalle grosse, ma così grosse che quando fugge lui smuove altro che aria.

Era l’ora che gli scrivessi, a mio fratello.Così è andata che qualche settimana fa mi è arrivata una mail: sei tra i finalisti. Pare avessero concorso in centinaia. Bella storia!

Oggi eravamo lì, io e tanta bella gente. Un’attrice ha letto le mie parole, una ragazza le ha illustrate con forme e colori. È andata che da centinaia siamo rimasti in dieci, poi tre, e il cuore batteva, cazzo se batteva, e le mani tremavano un po’, e poi… e poi niente, è andata così…

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il Venerdì _ 00

Di venere e di marte né si sposa né si parte, né si da principio all’arte.

Già! Me lo ripeto da tutta una vita. Quella che sta per concludersi, però, è stata una settimana strana. Forse sarebbe meglio dire assurda. Si, assurda, ma così assurda, che penso sia esattamente la settimana giusta per dare il via a qualcosa proprio di venerdì.

Sarà l’incalzare dei giorni e la fine dell’anno che si fa sempre più vicina, o forse l’approssimarsi del Natale, che ogni anno porta con sé ansie e corse al regalo dell’ultimo minuto. Chissà… quel che è certo è che la gente sta impazzendo e sebbene sembri impossibile andare oltre il limite raggiunto, questo periodo dell’anno è solito riservare a riguardo interessanti sorprese, ahimè non solo ben infiocchettate sotto l’albero.


Di gente bizzarra in giro ce n’è davvero tanta. Ne vedo un po’ ogni giorno, scontrosa, ironica, tenera da lasciar senza parole.
Si potrebbe pensare che la segretaria di uno studio medico passi le sue giornate a vedere sempre le stesse facce, a far sempre le stesse cose, a farsi due palle, insomma… invece le cose non stanno affatto così. Certo, avere a che fare con gli altri richiede spalle larghe e una bella pazienza, ma ci sono incontri capaci di ripagare gli sforzi.
Cosi ho pensato, perché non dar spazio a questi incontri? Ché in fin dei conti, nel frullatore inarrestabile  della quotidianità, sono ciò che fa la differenza. Raddirizzano una giornata storta, ad esempio, fanno riflettere o ti piegano in due dalle risate. Allora ho deciso, ne sceglierò uno a settimana: un incontro, una frase, uno scambio di battute, che a suo modo abbia fatto la differenza.

Parto con le migliori intenzioni e se poi non dovessi continuare, sarà stato perché di venere o di marte… be’, intanto penso a un buon inizio, che chi ben comincia, si sa, è a metà dell’opera. Così le prime parole sono quelle d’una collega, nonché preziosa amica, che a fine di una tumultuosa giornata di lavoro, ricca di stravolgimenti nell’assetto organizzativo, mi si è fatta vicina e ha detto: “Sai, di tanto in tanto la merda va fatta arieggiare, sennò va a finire che la unn’è mica bona a fare da concime”.

E allora sai icchè?
Arieggiamo!